Alice Munro: Troppa felicità

Mi sono fatta un’idea, sottolineo solo un’idea, attualmente ancora definibile  come  approssimata e, quindi, bisognosa di ulteriori approfondimenti attraverso la lettura di ulteriori sue opere, della scrittrice Alice Munro, meramente ascoltando o leggendo alcuni commenti dei/delle suoi/sue lettori/ci ma specialmente prestando ascolto al riecheggio che è riverberato,  rimbalzato dentro  la mia testa e dentro di me  o meglio ancora  da me a me  mentre scorrevo con la lettura la narrazione presente nei racconti contenuti nel libro della scrittrice intitolato Troppa felicità.  Sono in tutto dieci titoli e su temi accattivanti ma, al tempo stesso, controversi, esattamente come  lo possono essere, il richiamo non è a caso, gli  ossimori; questo vocabolo ossia ossimoro, già intrinseco all’intitolazione, come tale pare mantenersi e attraversare, in modo  persistente, il libro  per la sua quasi totale interezza esattamente come anticipato dal titolo; il senso comune invita a interrogarci sul tema della felicità e a chiederci se essa sia o non sia presente nella vita di ciascuno di noi, ma nella maggioranza delle esperienze esistenziali umane, della felicità non se ne ha quasi mai … “troppa”. Mi ha stupito; ecco questa è stata la mia prima reazione; tra l’altro non è propriamente questo lo scopo recondito di ogni ossimoro?  Ossia stupire, scatenare delle reazioni in chi ascolta o in chi legge? Solo che tale stratagemma, in genere, è usato con più frequenza in poesia e assai meno nei racconti in prosa. Non conosco gli altri romanzi della scrittrice americana, premio Nobel per la letteratura nel 2013, pubblicati prima e dopo l’incoronazione, ma so che sono diversi; ahimè, non li ho letti e pertanto non posso fare utili confronti; mi limiterò pertanto all’esame dell’unico libro letto e a restarne nei ristretti confini. So per certo che qualcosa ho imparato  anche da lei, ad esempio, quel sentirmi reattiva, sorpresa, lo confesso non sempre piacevolmente, dalle sue mosse stilistiche repentine e assolutamente inattese che compaiono e scompaiono in modo  del tutto imprevedibile; un modo  di scrivere il suo che  spesso non  mi ha permesso di reagire costruttivamente come lettrice a quella che ho percepito come una domanda nascosta dell’autrice, meglio un’  inespressa domanda dell’autrice  al lettore e che le ho  “sgraffignato” , almeno a  me così è parso al termine della lettura del libro, tra le righe e che riassumo qui di seguito : allora che cosa ti aspettavi dalla trama o dal finale o peggio ancora: dimmi, in tutta verità, quale finale, se proprio deve esserci per forza un finale ad ogni mio racconto, tu ci  vedi e vedevi, ti immaginavi sarebbe stato e quale tu desideravi ci fosse o speravi  che io scrivessi per soddisfare il tuo spontaneo e naturale narcisismo di lettrice?  Attenzione però non mi sono affatto sentita presa in giro beffata illusa lasciata con la bocca asciutta o amara in quanto lettrice tradizionale o ancora di più tradizionalista; devo riconoscere che non mi vanno bene neppure i racconti classici a finale retorico o scontato quelli che saresti in grado che so di tracciare anche tu con il supporto di un qualche talento e di una discreta immaginazione unita a capacità narrativa anticipatoria. Non si tratta in soldoni di mera imprevedibilità ma di un vero e proprio stile personale, mi permetterei di aggiungere, uno stile personalissimo, parecchio, anzi, decisamente conquistato dalla Munro con un lungo lavoro di affinamento su se stessa e sulla sua scrittura e quindi portato a livelli alti di raffinatezza dei quali può fare sfoggio  in quanto scrittrice…molto letta. Che cosa ho potuto imparare da questo unico libro letto? Imparato forse non propriamente ma ripreso nella memoria a tratti,  ripassato forse,  questo sì: un’assonanza piuttosto lontana ma reale tra talune vicende, fattualità incontrate sia pur parzialmente e frammentariamente nella mia vita o che si sono, in talune occasioni, presentate alla mia attenzione non in modo diretto e non ovviamente con le stesse sequenze contagiose di pathos e drammaticità  realistica propri delle  vicende narrate nel libro, vicende che tutt’al più hanno viaggiato talora,  come due treni paralleli, per qualche fuggevole minuto, accanto alla mia vita se non proprio dentro la mia vita. Che cosa posso portarmi via da trattenere, come lettrice, da conservare dunque da questa scrittrice, sia pure nel breve arco di una lectio brevis, ossia un solo suo libro letto? Direi molto; mi porto via infatti un messaggio importante che è il seguente: per essere davvero una lettrice attenta e viva devo smettere di essere passiva, devo farmi più attiva dentro il mio atto stesso di leggere, più aperta, meno faziosa, pertanto farmi condizionare di meno dalle mie aspettative o dalle  mie abitudini o delle mie passività, dalle mie  pigrizie,  dai miei stereotipi e pregiudizi ,senza per questo trasformarmi a forza in una tifosa accanita acquiescente avvolta e travolta dalle spirali dell’Autote/Autrice di turno, da lui o da lei facendomi ipnotizzare, incantare, sorprendere o affascinare momento dopo momento della lettura,, semmai, proprio il suo contrario, ossia devo stare più attenta alle sfumature, alle pause, più in allerta sia verso il non detto, il sottinteso sia verso il non dichiarato da parte della scrittrice o dello scrittore che sto leggendo piuttosto che verso il loro detto, o il loro dichiarato espliciti mantenendo un giusto avvicinamento con distacco. Condivido, pertanto, in base a quanto ho appena sottolineato, le osservazioni sulla Munro compiute da Manuela Lullo sul suo blog del 15 aprile del 2022, ella scrive: “…la sua scrittura è stringata sintetica all’inverosimile, tagliente come un’accetta, asciutta essenziale secca da parere quasi brutale talvolta e fastidiosamente sospesa…” è proprio così  che scrive la Munro anch’io la ritrovo nei racconti presenti nel libro letto, ad esempio in quello della donna legata al marito infanticida; dell’uomo che uccide i genitori e lo racconta ad un’estranea; della ragazza che fa compagnia, al posto dei congiunti, a un uomo che sta per morire di leucemia; del bambino nato con una piccola differenza fisica che lo condiziona e martirizza; eppure, ma questo lo aggiungo io, questa stessa scrittrice sa anche essere altro da questo, sa anche ricreare atmosfere speciali particolari  molto  tenere, persino elegiache; ne è una riprova il decimo racconto  contenuto nel libro che offre il titolo  al libro stesso cui fa riferimento la presente scrittura, dove si narra l’ultima parte della vita di una donna speciale, come dice l’autrice stessa, una donna ma insieme anche una  strana combinazione di matematica, di scienziata  e di romanziera al tempo stesso, la russa Sofia Kovalevskaja  con la quale  la scrittrice  sembra stringere una qualche insolita identificazione? Non saprei, non ho sufficienti elementi, ma questo sembra proprio avvenire ossia un cambiamento non radicale ma certamente sensibile dei toni, uno sciogliersi e un evolversi un placarsi  dello stile precedente per lasciare spazio ad altre abilità espressive, un suo impensabile andare verso la pacatezza e  la tenerezza descrittive e narrative quelle a cui il lettore medio è  probabilmente più abituato ad aspettarsi da una scrittrice? La domanda resta aperta ma lo ammetto un po’  solletica.


LUCIA BERLIN: LA DONNA CHE SCRIVEVA RACCONTI

Nel 2015, Lucia Berlin, raffinata scrittrice americana, scrisse un libro intitolato “La donna che scriveva racconti”; un libro subito applaudito dalla critica e dai lettori tanto da essere inserito tra i primi dieci migliori libri scritti in quell’anno. Per farvela breve, divenne, quasi subito, un libro di successo.  Sul quale si scrisse tutto il meglio possibile, ossia  che era un libro sontuoso, colmo di meraviglie, di fatto  sono in tutto 43 racconti  tra brevi e brevissimi, che era tra quei pochi libri che si  devono tenere sul comodino  e leggerlo lentamente, centellinarlo, un racconto dopo l’altro, come si fa con i cibi e le bevande buonissimi, insomma quasi  un mantra; un plateale osanna collettivo per cui leggere questo libro significava provare piaceri straordinari per la sua scrittura di altissimo livello ossia estremamente pulita e telegrafica e con un grande modello alle spalle ossia Anton Cechov unitamente a un nota musicale di fondo, quasi un assolo di jazz. Di fatto, Lucia Berlin è una scrittrice molto nota e amata  negli Stati Uniti; lo si sa la  Berlin è peculiare per la sua scrittura: scrive solo racconti; è molto colta, sensibile, attenta alla gente normale come alla povera gente come a quella aristocratica, il suo sguardo spazia tutt’attorno e si posa sulle vite multiple dei suoi simili geograficamente e storicamente collocati nella contemporaneità; è maestra del racconto breve, scrive solo cose vere e in modo onesto, scrive di ciò che conosce con cui si confronta e a cui partecipa in prima persona  e a cui chiama  apertamente anche il lettore a compartecipare. Nei suoi libri non ci sono mai solo storie e basta  ma  spaccati vita da conoscere osservare avvicinare. Il suo modo di scrivere è apparentemente semplice accattivante accosta e tocca sensibilmente la realtà  che attraverso questo tocco diviene più accettabile più digeribile anche nella sua ferocia nella sua durezza e nella sua  crudezza più acute e purtroppo  mai assenti. Lei è effettivamente brava nello scrivere ma sa anche  operare un trasferimento particolare il seguente: nel suo mondo descrittivo inserisce anche il tuo mondo descrittivo, descrive al tuo posto. Ieri e oggi come mi vedevo e come  mi vedo, come mi vedevano ieri e come mi vedono oggi gli altri. I suoi racconti sono molto belli, sinceri, ironici,  spesso impietosi, sempre lucidi.

Una vera scrittrice non minore una scrittrice e basta quantunque personalissima tanto da rasentare l’eccentrico; purtroppo una donna  dalla vita infelice e tormentata,  tragica, tormentata dalla  povertà dalla scoliosi e dall’alcool, muore infatti  nel 2004 a 68 anni  alcolizzata e in assoluta solitudine  nonostante madre di ben  quattro figlie. E’ suo anche il libro Sera in Paradiso.


MARIE CARDINAL: Le parole per dirlo

Ci sono libri che sentiamo particolarmente vicini e che diventano parte di noi; spesso sono libri senza tempo.

Così mi è successo per Le parole per dirlo di Marie Cardinal, pubblicato nel 1975, fu insignito del Prix Lettrè e rese subito la sua autrice celebre, amata dalle donne e icona del femminismo.

Marie, nata ad Algeri nel 1929, dove vive sino all’adolescenza e segnata da un’educazione rigida e sessuofobica in un istituto religioso, proviene da una famiglia autoritaria e repressiva dell’alta borghesia. Docente di filosofia, dopo il grande successo letterario si dedica sino alla morte, avvenuta nel 2001, alla causa delle donne, con battaglie concrete e con altri libri ancora, sempre alla ricerca di parole per parlare della vita vera delle donne, della quotidianità dei loro corpi.

Le parole per dirlo è uno di quei romanzi che si muovono tra il privato e il politico e che hanno la capacità di intercettare gli umori di un’epoca: siamo in pieno femminismo e le donne avvertono la necessità di adoperare parole proprie. Racconta della liberazione di una donna compiuta parallelamente a un movimento di liberazione collettiva; la riscoperta di un’identità femminile più autentica, la necessità per una donna, per tutte le donne di riprendersi in mano la propria vita.

E’ la storia tutta al femminile dell’analisi di Marie, che racconta la sua rinascita, o meglio della nascita e del graduale e lento recupero di sé, dopo sette lunghi anni dolorosi di psicoanalisi. Analisi che l’ha guarita e liberata dalla Cosa: l’oscura violenta angoscia senza nome che abbisogna appunto di parole per dirlo.

La cosa si manifesta pesantemente nel corpo, la scrittrice a trent’anni rimane prigioniera di una malattia, apparentemente inspiegabile che la devasta, la costringe a vivere isolata dal mondo, nel bagno di casa sua tra il bidet e la vasca, per controllare un flusso di sangue, ossia delle continue emorragie che la lasciano tremante, coperta di sudore, terrorizzata ed incapace di vivere, divorata da una sofferenza e un’angoscia senza fine.

Marie sembra poter usare solo il linguaggio del corpo, la somatizzazione, la conversione della sofferenza sul corpo e non  la parola, il corpo diventa luogo ed espressione fisica di uno sconvolgimento emozionale.

In questo libro leggiamo di un blocco di ogni possibile discorso significativo, non ci sono parole per dirlo, parole che non vanno semplicemente cercate ma create per cui Marie non ha simboli utili per rappresentare i suoi stati somatici.

Marie con il suo libro ci porta insieme a lei lungo il vicolo che per sette anni tre volte alla settimana ha percorso fino in fondo, fino al cancelletto di quell’ometto, così chiama il suo analista, che ascolta le sue parole con la sapiente coscienza del silenzio. Sono le parole provenienti dalla profondità dell’inconscio, delle emozioni rimosse e precoci, che fanno rivivere la sua bambina interna. Il dolore è profondo e lacerante, ma è solo attraversandolo che Marie può arrivare alla consapevolezza e alla possibilità di mettere in parole l’angoscia senza nome e di sciogliere il dolore. Diviene anche la narrazione del linguaggio di un’analisi, nato dallo scambio tra terapeuta e paziente.


ANNIE ERNOUX: La donna gelata

Frederic Moreau sta tornando a casa in nave, dopo aver terminato i propri studi. A bordo del battello fa la conoscenza di un editore, Jacques Arnoux. Questi è accompagnato nel viaggio dalla moglie, Marie, di cui Friederic si innamora follemente. La situazione è tale da impedire ogni avvicinamento del giovane Frederic che ne resta frustrato sino al ritorno alla casa di famiglia dalla quale continua a pensarla. Questo che vi ho riassunto è per chi lo ha letto l’incipit di un romanzo di Flaubert intitolato” L’educazione sentimentale”. Per quali motivi questo rimando insolito? Lo spiego subito. Il libro di Annie Arnoux che ho letto intanto ha più punti in comune con il libro di Flaubert di quanti se ne potrebbero inizialmente  supporre; infatti si inserisce nel filone delle opere e lo vedremo davvero numerose del cosiddetto filone della scrittura che riguarda l’educazione sentimentale  diretta o indiretta dello scrittore come voce  narrante partecipe in prima o terza persona inoltre- ed  è un particolare curioso- l’editore  coprotagonista nel libro di Flaubert si chiama…Jacque Ernoux. Ebbene La donna gelata si presenta come una versione ovviamente ultramoderna e personalizzata biograficamente dell’educazione sentimentale subita e quantomeno vissuta dalla scrittrice francese. Si tratta di tornare con lei ai giorni nostri o almeno di molte di noi: anni cinquanta sessanta settanta e si basa sulla narrazione e descrizione, come per tutti i romanzi cosiddetti di “formazione” educativo sentimentale, sull’evoluzione emotivo sentimentale del/ della protagonista che viene descritta a partire dall’età infantile a quella adulta attraverso quella preadolescenziale, adolescenziale, giovanile. L’autrice o l’autore con tale tipo di opera in questo caso specifico Annie Arnaux  ci racconta i segreti  o almeno quelli che ritiene e si sente  di narrarci  contenuti nel suo diario, ci parla della sua infanzia, della sua preadolescenza, della sua adolescenza, della sua  prima giovinezza ( ossia dagli 8-10 anni ai 20-25) periodi per tutti ed anche per lei determinanti e fondamentali per le sfide, le scoperte, le esperienze anche le avventure e gli errori che li caratterizzano normalmente e, nel suo caso singolarmente, non trascurando di evidenziare e di enumerare anche gli sbagli compiuti, i rimpianti, le perdite,  persino i vacui tentativi di trasformarsi in chi  in realtà  lei non è, ma attraverso i quali ella diventerà quello che  è  tuttora  una docente e una scrittrice. Gli autori che affrontano, come la nostra, questa tipologia di racconto fanno tutti uno stesso sforzo, insieme mentale e creativo, a partire da Goethe, il capostipite sino ai giorni nostri attraverso e vi   ricordo che anche Stendhal  ne scrisse  così come  pure gli autori di Tom Jones, Robinson Crosue, I viaggi di Gulliver rispettivamente Fielding, Defoe, Swift, tutti, ma tutti davvero si propongono una sola cosa; descrivere la loro formazione identitaria sotto gli aspetti emotivi, sentimentali, culturali. Intendono  raccontarci tutti costoro e tra loro anche l’Arnoux, secondo stili letterari e personali  epocali ovviamente diversi, i loro anni di apprendistato della vita, la loro maturazione personale individuale con particolare sottolineatura delle loro emozioni e dei loro sentimenti dei loro pensieri anche più intimi oltre che dedicare spazio anche all’ambiente familiare, sociale, storico e geografico in cui si sono inserite sono avvenute le loro appropriazioni verso gli stati adulti in fatto di educazione sentimentale. Pertanto anche la nostra mescola nel tracciarci la sua personale educazione sentimentale le descrizioni di una serie di esperienze significative familiari ambientali scolastiche geografiche e storiche piacevoli e meno piacevoli inserendovi anche note folcloristiche echi di cantautori e persino di modi di essere e mode di vestire pettinarsi propri delle adolescenti del suo tempo. Amicizie, flirt, canzonette, le prime scoperte affettive e sessuali i contrasti con i genitori specialmente la madre, i docenti, le letture fatte ma proibite tutto questo nella ricerca di una collocazione e configurazione identitarie spesso perlustrate in modo e con metodo spietati verso se stessa vedasi il titolo che sottintende molto di sé e allude e prelude alla donna gelata.