Fu ai primi di ottobre di trent’anni fa che conobbi Sandra. Tutti al paese si gustavano un autunno che era appena annunciato e che si portava appresso promesse, sino a quel momento puntualmente mantenute, di giornate ancora lunghe e soleggiate. Forse a noi due, voglio dire, a lei e a me, più che ad altri, tutto questo dispiaceva; la ragione consisteva nel fatto che era, da poco, ripreso l’anno scolastico e noi che avevamo all’incirca la stessa età, nove anni, eravamo obbligate alla frequenza della quarta classe elementare. Una mattina fra quelle più tiepide e luminose, ossia estremamente invitanti per la congiunta presenza degli allettanti colori e degli inebrianti profumi della vegetazione rivierasca al suo acme, salii, come mio solito, alla scuola elementare, sita in via B., dietro al Palazzo del Municipio e, al secondo trillo della campanella d’entrata, la vidi per la prima volta. Era più che seduta, seminascosta, rannicchiata su sé stessa, sul sedile destro del penultimo banco di legno d’olivo, costruito ancora alla vecchia maniera, ossia un piano unico per due posti, nella fila a sinistra rispetto alla cattedra della maestra. Se ne stava là, in quella posizione scomoda, tutta sola, postura immobile, sicuramente arrivata molto in anticipo rispetto all’orario d’inizio delle lezioni. Pelle livida e mani gonfie; dita tozze, corte, premute contro il margine dello scrittoio, naso che si sarebbe detto da pugile, sotto il quale sporgeva un pronunciato labbro superiore da cui spuntavano due incisivi da roditore, troppo lunghi e troppo larghi, troppo radi tra loro, per starsene rinserrati in bocca; mento inesistente e collo insaccato dentro l’alto colletto di pizzo bianco che completava il grembiule nero. I capelli le erano stati tagliati a tazza, erano pochi, fini, dritti, tinta sabbia, infine, il suo sguardo – uno sguardo che mi parve tremendo – era liquido, colore dell’acqua sporca, indicibilmente obliquo, stranamente assente, perso o forse fisso su di un punto lontano solo a lei noto e a nessun altro. Ricordo che me ne stetti, qualche tempo a sbirciarla di nascosto, avvertendo ad ogni mia occhiata una forte e tumultuosa emozione data da un misto di timore e di stupore: lei, al contrario, continuava a restare, quasi fosse stata non una persona in carne e ossa ma una statua di marmo o di ceramica, muta, nella postura in cui l’avevo trovata. Per fortuna, il sopraggiungere vociante dei compagni di classe seguito dalla maestra valsero a distrarre me, ma per niente lei. Anche tutti gli altri bambini incontrarono, quel giorno per la prima volta, Sandra; meglio dire vi furono costretti, dopo che la maestra, terminate le consuete preghiere che aprivano, quotidianamente, le lezioni, con parole e sorrisi per l’occasione, più del solito, amabili, ci informò che avremmo avuto una nuova compagna di classe, di nome Sandra e che avremmo dovuto essere molto gentili e molto disponibili con lei. Tutti ne fecero, ad uno ad uno, la personale conoscenza ma, o almeno così a me pareva, senza mostrare di provare per lei quello strano turbamento e quell’intimo sconcerto ch’io avevo provato e che mi portavo dentro ancora da che l’avevo incontrata come fossero due pesi, posti direttamente e nella mia mente e sul mio cuore anche a distanza di tempo. Anche quando, dopo quella giornata, me ne stavo per i fatti miei, fuori dalla scuola, a bighellonare per il paese, a raccattare conchiglie sulla sabbia, in riva al mare, le cui onde, sul bagnasciuga, incominciavano a diventare ogni giorno più fredde o a far capriole tra l’erba delle chine nei prati vicino a casa mia, sola o in compagnia, mi visitavano di frequente il ricordo ed il pensiero di lei. Con il passare dei giorni, l’immagine di Sandra mi si configurava dentro sempre più come quella di un mostriciattolo, uno gnomo grottesco dal profilo di vecchietto. Intanto nell’ambiente scolastico, vuoi per l’età, vuoi per le convenzioni in uso, vuoi per l’impostazione educativa della nostra come delle altre maestre, tutti trattavano Sandra con molto garbo ma anche con distacco come fosse una pupattola, un giocattolo curioso che gli adulti si aspettano non venga mai toccato troppo per non essere rotto più di quello che già è, in breve non una persona ma una cosa da proteggere e basta, una cosa che si deve tenere con cura e conservare con attenzione per giocarci, un po’, di tanto in tanto, per mero dovere, magari essendone poco convinti e poco gratificati e che, infine, va riposto al suo posto ricomponendolo in una nuova attesa e non nascondendo, nel riporlo, anche un certo sollievo. Succedeva un po’ come quando si conclude un’opera di bene messa in atto solo mero dovere ma non per vera convinzione. Secondo tutte le autorevoli voci delle varie componenti scolastiche Sandra si era perfettamente inserita; nessuno, tuttavia, di tutti questi convinti assertori, si era preso la briga di chiedere a Sandra o almeno di accertarsi seriamente se anche lei la condivideva; se si sentiva davvero bene in quella classe o in quella scuola, o ancora, se aveva proprio voglia di sentirvisi integrata secondo quelle modalità poste in essere e divenute routine. Nessuno la interrogava mai su questo o su altro che la riguardasse da vicino e direttamente; ci si rivolgeva a lei con la stessa stucchevole dolcezza con cui si parla ai neonati o ai dementi calmi; erano parole senza attesa di un ritorno, leziosi monologhi, autocompiacimenti che non chiedevano, né volevano risposta alcuna da Sandra, insomma non la coinvolgevano veramente. Lei d’altra parte, li pareva accettare, stava al gioco funzionale; dove la conducevano e la posavano, là, se ne stava, apparentemente quieta; faceva esattamente quello che volevano lei facesse, molto compiacente; reagiva di suo, solo le poche volte che i bisogni fondamentali e primari le ingiungevano di essere soddisfatti, ma anche in queste occasioni, per esprimersi, usava le regole cui l’avevano abituata, come un oggetto ad univoca destinazione d’uso, senza pretese, né speranza di ritorni. Sandra, con la sua quasi completa inosservanza delle regole della comune umana grammatica, era perfettamente idonea a rassicurare tutti noi circa la nostra assoluta normalità.
Quel che i genitori degli alunni della mia classe e dell’intera Scuola pensavano o dicevano dell’inserimento di Sandra, corrispondeva, poco più, poco meno, alle voci che circolavano in paese sulla sua famiglia ed ai commenti, poco benevoli, sull’assurda decisione assunta, si sentiva mormorare, dai nonni materni di Sandra, ossia quella di portarla via da quello stimato istituto per la cura e l’assistenza dei minori pari suo che si trovava nella città di T. dove – si asseriva – bene avevano fatto i suoi genitori a portarla sin da piccola e per l’intera giornata, ma di trasferirla dapprima al paese per farla vivere con loro e, subito dopo, di iscriverla alla scuola come alunna regolare. Intanto, si concludeva, da ultimo, quella là non sentiva, non capiva niente, era simile ad un vegetale, anzi ad un suo derivato ligneo, una sedia, che dove la metti sta, a cui puoi dare tutti i calci che vuoi, tanto non reagisce; ignoranza, sull’origine della sindrome collegata alla trisomia 21, pregiudizi e informazioni distorte bastavano a completare quel brutto e squallido quadro intessuto da pettegolezzi e da pregiudizi. Non nascondo che anche i miei sentimenti verso Sandra erano contrastanti, da un lato mi impauriva per la sua condizione di “cosa mostruosa” che non conoscevo e non comprendevo tra i miei parametri abituali di riferimento; dall’altra mi incuriosiva, ancora una volta, come “oggetto” misterioso di avventura, da avvicinare e da scoprire. Non mancava in questo impasto di sentimenti e di sensazioni anche una sorta di sottile ed insinuante timore, di vera e propria paura, nei suoi confronti. Ci fu un episodio, in particolare, che me ne informò palesemente, all’improvviso e senza preavviso, sull’esatta dimensione dei miei affetti verso di lei. Avevo da poco consegnato alla maestra il protocollo a quadretti contenente il mio compito in classe sulle equivalenze metrico-decimali e stavo tornando al mio banco, quando m’accorsi che Sandra che non partecipava mai ad alcuna attività scolastica e meno che mai a quelle ritenute “le difficili” e per tutto il tempo delle lezioni se ne stava, come suo solito e come da ordini impliciti, tranquilla ed immobile al suo posto, si era alzata dal suo e si era avvicinata al mio banco e da lì, probabilmente attratta dalla sua forma e dai suoi colori sgargianti, si era presa e portata via il mio asciuga-pennino preferito, quello che io tenevo come mio oggetto prezioso, un amuleto scaramantico, un portafortuna, in quanto, bello com’era, non veniva mai da me usato ma solo contemplato, adorato. Ora era lei a tenerlo in pugno meglio in una delle sue tozze mani e a me così sembrava, anche, in un aperto atteggiamento di sfida. Rabbia e mai troppo domato senso di proprietà mi presero e mi spinsero a raggiungerla per riprendermi quello che era uno dei miei conforti quotidiani alle fatiche scolastiche, ma troppo tardi, quando fui a poche spanne da lei, se l’era già portato alla bocca e lo serrava avidamente tra gli incisivi anteriori, stava masticandolo con la stessa voracità con cui l’avevo vista divorare la merenda nella ricreazione, in più, come se già non bastasse, sbavava ai lati della bocca più di del solito. Ero furiosa ed imprecavo mentalmente. Pensavo: “Guarda tu quel che doveva capitare al mio meraviglioso asciuga-pennino, tondo, di pannolenci fine, color arcobaleno, guarnito, al centro, da un bottone lucido di madreperla, che, unica consolazione, mi sorrideva allegro nei momenti del peggior grigiore scolastico!” Era miseramente finito nell’orribile bocca di quell’altrettanto e ancor più orribile essere chiamato Sandra. Alla collera subentrò il rifiuto, il richiamo vivace e il veloce intervento risolutore dell’insegnante giunse in tempo per riportarmi alla realtà della rinuncia e della riflessione; formulai un proposito: non avrei mai più toccato, né tanto meno rivoluto indietro quell’asciuga-pennino ora che era stato così offeso e crudelmente straziato da lei; se lo tenesse pure, anch’io mi sentivo offesa e ferita. Due giorni dopo, all’uscita dalla scuola, la nonna di Sandra si avvicinò timidamente a me e con l’aria di una che voleva scusarsi mi porse un minuscolo involto di carta velina bianca sussurrando qualche parola tra scusa e grazie. Io non feci in tempo ad alzare gli occhi dal pacchetto che mi aveva, con delicatezza, posato sul palmo di una mano per ringraziare a mia volta che era già sparita. Presi una decisione e fu rapidissima: dovevo andare da Sandra, a casa sua, quello stesso giorno; l’asciuga-pennino, lavato, stirato e restituito integro, era l’occasione giusta. Vi andai, effettivamente, senza preannunciarmi, nel primo pomeriggio di quello stesso giorno. La casa dei nonni di Sandra, così mi aveva indicato la maestra, era appena sopra la regione soprannominata, vedi il caso, La Bandita, cioè quasi in cima al paese, molto oltre la chiesa parrocchiale che pure era in alto, non lontano dal camposanto. La trovai facilmente; come pure individuai subito il basso cancelletto di ferro battuto che immetteva direttamente in un vialetto, cosparso abbondantemente di ghiaia grigia, tutto coperto da un pergolato da cui pendevano, in quel momento, grappoli d’uva giganteschi ed invitanti fitti di chicchi enormi e lucidi, di colore rosso rubino. La mia meraviglia era destinata ad aumentare e a esplodere proprio alla fine del vialetto, quando vidi alla mia destra un prato estremamente ben tenuto su cui dominavano dieci giovani alberi di melograno piantati alla stessa distanza l’uno dall’altro, tutti della stessa altezza, della stessa ampiezza di chioma, della stessa apertura di rami tanto da sembrare, i successivi, nove copie perfette del primo. Non avevo mai visto nulla del genere prima di allora e l’oggetto di quella insolita visione mi tornava curiosamente fantastico e straordinario. Non avevo ancora messo da parte il mio primo incanto, quando me ne toccò un secondo, scorgendo la casa dei nonni di Sandra. Essa non avrebbe avuto nulla di speciale se, alla sua base, lungo lo zoccolo e per tutto il suo perimetro, ad un’altezza da terra di circa un metro non fosse stata decorata da un bassorilievo in ceramica dipinta con colori sfolgoranti raffigurante decine e decine di altrettanti frutti maturi dell’albero di melograno. Fui estasiata da quel particolare così inusuale; anzi, esso mi rendeva quella casa come la più affascinante di tutto il paese, sicuramente la più originale pur nella sua convenzionale semplicità di casa contadina. Seppi, più tardi, dal nonno di Sandra, che il numero dieci corrispondeva alle dieci lettere che componevano il nome di Alessandra e che era stato lui stesso a piantarli ad un anno dalla nascita dalla nipote; sempre lui li aveva coltivati negli anni e continuava a curarli; come altrettanto sua era stata la scelta di decorare, con lo zoccolo di piastrelle in ceramica riproducenti il frutto maturo del melograno, i quattro lati della casa. Visitai quel luogo singolare, ormai per me divenuto “la casetta dei granati”, più volte, nel corso di quell’autunno pieno di sole. Imparai presto ed a memoria la topografia degli interni: al primo piano le camere da letto di Sandra e dei suoi nonni con la saletta quadrata, quattro metri per quattro, le due finestre a cui erano state applicate tendine di pizzo che riportavano sull’orlo, ricamato, il frutto maturo del melograno. Al pianterreno, le stalle, la cantina e la grande cucina con il focolare sempre acceso e la panca di legno di rovere per sedersi e, volendo, imitare il poeta studiato a scuola nel contare le monachine che salivano a posarsi sulle incrostazioni di caligine del camino o, come si preferiva dire in quella casa, che “se ne andavano a nanna”. Gustai le frittelle di farina, latte, zucchero che, ogni volta, scivolavano, calde e ben cotte sui piatti della merenda e da lì sotto al mio palato e provai un divertimento indicibile ad alternarmi con Sandra nel cavalcare il pony pezzato che il nonno guidava e teneva prudentemente per le briglie. Furono queste le uniche occasioni in cui mi parve di vedere comparire un sorriso sulle labbra di Sandra, che era normalmente seria, in cui ebbi modo di notare che il suo sguardo si faceva meno obliquo, meno trasversale, meno sfuggente e più diretto. Tornai sempre contenta e lei, se il tempo era bello, mi aspettava nel cortile davanti alla casa, seduta su un gruppo di grossi sassi, levigati e chiari che il nonno aveva accomodato solo per lei con calce bianca e sabbia a vero e proprio sedile di pietra. Lei vi si accomodava, a me pareva, con aria fiera, padrona della sua situazione, alle sue spalle sfavillava, come uno sfondo scenografico, una corte fastosa di cospicue dimensioni, lo zoccolo che decorava tutt’attorno la casa, formato dai melograni di ceramica dipinta. L’ultima volta che le feci visita, mentre la lasciavo ed era sera, mi voltai più volte a guardarla: Sandra era là, seduta sul suo trono di pietra, composta e dignitosa, come una regina. Mi piacque spesso riandare, in seguito, con il pensiero, ad un frammento specifico di quella scena: Sandra che, me incredula, accennava uno dei suoi rari sorrisi, mentre, alle sue spalle, sul basamento della casa e, poco più in là, sui rami dei dieci granati, completamente spogli, i frutti maturi ed aperti inviavano anche loro un quasi sorriso. Quei tre sorrisi distinti eppure uniti in uno solo, di Sandra e dei melograni sia naturali che dipinti, me li portai dentro, grati, leggeri, costanti, come certi profumi dell’infanzia che mettono tenaci radici nella mente e nell’anima. Nei giorni stanchi del mio vivere quotidiano odierno, quando li rivivo, mi rendo conto che col tempo hanno preso e sostituito, benevoli e caldi, il mio asciuga-pennino di pannolenci color arcobaleno, orgoglio vacuo di bambina capricciosa e superstiziosa, piena di pregiudizi crudeli, ritrovato ma subito dopo riperso e mai più cercato come purtroppo non avevo più cercato né rivisto Sandra.
Fu lei invece a cercarmi.
Due giorni fa ho trovato nella posta un pieghevole insolito, portava sul frontespizio il disegno del frutto e subito sotto la scritta “I melograni, casa famiglia per diversamente abili. Fondazione Onlus. Dopo di noi”. Indirizzo e numeri di telefono e tre parole scritte sul margine bianco interno con penna stilografica ad inchiostro nero, scrittura corsiva, tonda e grande, da adolescente “Ti aspetto. Sandra”. Sono salita in macchina spinta da un impulso dettato da curiosità ed eccitazione, pensando di fare solo e per poco un passo nel passato ma mi stavo sbagliando e pure di grosso. Ho ritrovato la casa dei melograni completamente trasformata e ingrandita per accogliere degli ospiti. Scomparsi del tutto anche lo zoccolo di ceramica, le tendine di pizzo alle finestre, il vialetto, il pergolato, l’uva dai chicchi scintillanti color rubino e tutto il resto, tuttavia fermi nel prato verde davanti alla casa, cresciuti ed imponenti, dieci melograni allineati, rassicuranti e protettivi come giganti buoni. A ricevermi sulla porta è proprio lei, Sandra, ormai una donna fatta, impegnata come saprò subito dopo, a gestire insieme agli educatori di una cooperativa, la casa famiglia da lei stessa ideata e voluta. In piedi, lindamente vestita, pelle oliva, capelli radi e corti, sguardo di miele, liquido ma diritto; sulle labbra, ancora carnose e sporgenti, un sorriso largo e aperto, innocente come quello di una bimba piccola. Sono imbarazzata, quasi intimorita da quella vista, mi ripeto mentalmente che quel miraggio corrisponde proprio a lei, a Sandra, la compagna di scuola di un tempo, la compagna che tutti consideravano, me compresa, una diversa. Sorprendente ma vero; ancora lei che, per niente turbata e molto più a suo agio di me, mi viene incontro tenendo in mano una foto in bianco e nero, una foto scolastica da rivedere e rivisitare insieme e mi ordina, mimando il gesto, con imperiosa, insolita, giocosa dolcezza, di abbracciarla. Commossa l’accontento, senza accorgermene rispondo con slancio al suo sorriso, aprendole, insieme alle braccia, il mio.