Quella mattina il suo risveglio era stato particolarmente difficile, molto più del solito. I suoi occhi non riuscivano proprio ad aprirsi, chiusi com’erano, da palpebre pesanti, gonfie, appesantite dalla cispa. Le braccia e le mani, come le gambe e i piedi, erano completamente intorpiditi e insensibili come gran parte del tronco e persino delle sue parti più basse, le più intime. La schiena, spaccata com’era in due da un dolore acuto e persistente, le inviava solo fitte brucianti come tagli di rasoio. Tutte queste parti anatomiche, lei sapeva che c’erano e che in quel momento le dolevano, ma era come se le fossero diventate d’un tratto estranee, pezzi di lei, certo, ma separati da lei; le aveva come tagliate via dal suo corpo, buttate non lontano dal suo corpo, rese non più sue. Una sensazione atroce di squartamento l’attraversava con un lungo brivido gelido, togliendole ogni forza vitale. La fronte e la testa le dolevano, le tempie le pulsavano e i ritmi delle pulsazioni arrivavano giù, dietro le orecchie e la nuca, sino al collo ed alle spalle. Artrosi cervicale, si disse, ne aveva sempre sofferto ma mai come in quel mattino. Era completamente sveglia, ma di socchiudere almeno gli occhi non si sentiva. Se ne restava perciò ad occhi chiusi, immobile, distesa supina, prostrata, devastata dal freddo che le pareva si sentire, incapace di muovere anche il più piccolo muscolo, terrorizzata all’idea di aumentare il dolore fisico che stava provando. Si accorse, tuttavia, che, restando ferma in quella posizione, pian piano, le stava riprendendo, nuovamente, uno strano torpore come quello che precede normalmente il sonno e che da mesi non le era più capitato di sentire. Da quando Franco, suo fratello, il più piccolo della famiglia, era stata preso dalla loro casa, una mattina presto, in fretta e furia, quasi di forza, portato via da lei per metterlo nel ricovero, lei non era stata più bene. Lei, quella mattina, non aveva provato, come sarebbe stato naturale, rabbia, dolore, voglia di reagire ma solo una specie di disperazione, forte ma muta, tutta mentale, che si era manifestata esattamente nello stesso modo, ossia con un torpore diffuso ma allo stesso tempo attento, uno stato di assenza in presenza, di attenzione concentrata sui particolari più che sull’insieme, quasi uno stato di sospensione della coscienza tra fantasia e realtà, uno stato di coscienza simile allo “stato crepuscolare” come l’aveva chiamato anche un medico dei nervi che l’aveva visitata e poi presa in cura. Non le era successo quando erano morti i suoi anziani genitori, i suoi due fratelli maggiori, Berto ed Anna. Si era rassegnata al destino e quando era successo, aveva fatto tutto da sola, se ne era fatta una ragione pensando che queste sono sì vicende dolorose ma sono le cose della vita. Ma con Franco, il suo fratello più piccolo, no, questo non era successo; questa trasformazione non era proprio avvenuta; lui era vivo. Lui era un diverso, era cresciuto fisicamente, sì, ma era rimasto un bambino, un bambino piccolo rinchiuso nel corpo fisico di un uomo adulto. A chi lo incontrava per la prima volta, poteva anche mettere un po’ di paura: alto, grande e grosso, mani e piedi in proporzione, faccia larga, occhi tondi che puntavano fisso, labbra sporgenti e bocca sempre semiaperta con la saliva che qualche volta gli colava ai lati. Usava poche parole, sempre le stesse, spesso le ripeteva con insistenza, con voce bassa come se volesse ripeterle a sé stesso. Eppure, lei che lo conosceva bene, avrebbe, se glielo avessero chiesto, giurato su qualunque cosa e davanti a chiunque che non era capace di fare del male a una mosca e neppure a sé stesso. Era vero: qualche volta si arrabbiava, si dava gli schiaffi in faccia, imprecava e lanciava qualche oggetto, se gli capitava a tiro, ma lei che l’aveva visto nascere, sapeva che non c’era un motivo di preoccuparsi, anche i dottori che lo avevano visitato, lo avevano detto. Franco non riusciva a sopportare troppi stimoli contemporaneamente, come fanno quelli che si definiscono i normali, lui si spaventava, si terrorizzava subito perché non riusciva a capire, non ce la poteva fare ed andava in crisi di ansia. Era questo l’unico vero motivo. Quel mattino di due mesi fa, era venuta, sul presto, a casa loro l’assistente, aveva bussato alla porta, l’aveva salutata con un sorriso di circostanza, poi, quasi scusandosi, le aveva spiegato che Franco non poteva più restare con lei; chiarì che Franco aveva bisogno di cure e di assistenza specifiche e lei, da sola e non più in giovane età, pur con tutta la buona volontà, non poteva farcela; pertanto, il servizio per la tutela e l’assistenza dei disabili aveva valutato la possibilità di inserirlo al ricovero dove c’erano quelli come lui perché si era liberato un posto. Era la soluzione migliore. Le aveva anche messo in mano un foglio con due o tre timbri e una firma. Poi l’assistente sociale e l’infermiera che era arrivata insieme a lei, erano andate a svegliarlo, l’avevano fatto vestire e senza neanche fargli prendere la colazione, se ne erano andate via con lui, portandosi dietro la sua valigia e tirandosi dietro la porta. Tutto in fretta e furia. Lei s’era accasciata sulla sedia dell’ingresso, ammutolita, intorpidita, nella sua mente solo le ultime parole dell’assistente, martellanti, in un insolito crescendo: poteva andare a vederlo tutti i giorni, se voleva.
Se voleva? Se voleva? No! No, che lei non voleva! Non voleva andare a trovarlo in quel posto, nel ricovero per quelli come lui. S’era sentita persa; ma, dopo un po’, pensandoci e ripensandoci sopra, le si era presentata un’idea che corrispondeva anche al suo stato d’animo più profondo: perché non protestare? Perché non protestare in pubblico in modo che tutti potessero vederla, constatare che era sola e non più in giovane età, che contava poco o niente per la società, ma era una sorella, una sorella che voleva bene a Franco, questo sì eccome se contava; era stata lei che l’aveva fatto crescere, tirato su fin da quando era nato e basta; perché non poteva far sapere anche agli altri che si era consumata un’ingiustizia? Perché non cercare la condivisione, la solidarietà dei suoi simili su quel fatto personale che ora era suo ma poteva essere o diventare anche di altri? Prese le sue cose, quelle minime, le mise in un paio di sacchetti e una borsa: ci stavano. Mise il cappotto, il berretto di lana, era autunno; uscì in strada con sottobraccio la coperta del letto, i sacchetti e la borsa in mano e prese la direzione del parco. Avrebbe dormito e vissuto là, su una panchina, fino a che avrebbe resistito, fino a che Franco, il suo Franchino, non fosse tornato a casa. Così aveva fatto. All’inizio era andata bene, sembrava fatta: tanti curiosi, gente, pubblico intorno alla sua panchina e tutti a leggere il cartello di protesta che teneva tra le mani. Era venuto per incontrarla e intervistarla anche un giornalista, aveva scritto un trafiletto sul giornale. C’erano stati fermento ed interesse, s’era sentita circondata da attenzione e da calore, come mai le era successo prima nella sua vita; si preoccupavano di portarle le bevande, i pasti caldi; le domandavano di lei e di Franco. Poi, d’un tratto, più niente: solo silenzio, solitudine, impotenza, sempre più grevi. Lei però aspettava, se ne stava seduta sulla sua panchina, inerte; veniva avvicinata, di tanto in tanto, solo da qualche barbone che, come lei, occupava altre panchine del parco. Una volta, di notte, aveva anche temuto di essere derubata delle sue poche cose, rimaste ancora dentro alla borsa. Le forze la stavano abbandonando, ma non aveva dubbi: non avrebbe lasciato, anche se, negli ultimi giorni, per il freddo, i dolori si erano fatti risentire in tutto il corpo, come in nella mattina in cui le avevano portato via suo fratello. Ad interrompere i suoi pensieri, alcune gocce d’acqua lungo il suo viso, le sentiva, ma non le sembravano pioggia, le percepiva distintamente mentre scendevano ai lati degli occhi e rigavano i lobi degli orecchi per nascondersi tra le pieghe del collo, gocce gelate, lacrime. Percepì anche dei rumori avvicinarsi, qualcosa o qualcuno le stava toccando con una mano la spalla destra chiamandola per nome: “Lina, Lina… dai, alzati, dai!”. Le sembrava una voce conosciuta, sì, non si sbagliava, era quella di Franco; forse stava sognando, si doveva svegliare. Sollevò a fatica la testa e le palpebre e guardò. Franco, suo fratello, era proprio lì, davanti alla sua panchina; poco più in là c’era anche l’assistente sociale che la stava salutando con la mano; era proprio lui, era vero, no, non stava sognando, era sicura: lì, davanti a lei, suo fratello Franco le stava sorridendo.