3 agosto 2015, ore 14. Milano mi sta strangolando per il troppo caldo, smisurata e quasi deserta a quest’ora può incutere persino paura ed alimentare rabbie dentro. Mi aggredisce un calore talmente sfacciato da non poter essere più tollerato senza imprecargli contro. Lampi asciutti balzano avanti improvvisi dal selciato arroventato e si alternano a guizzi metallici di portiere d’auto in sosta ai due lati di via Savona, riverberi entrambi di luce solare spinta a forza dentro la stagnante afa dell’aria; il primo pomeriggio ha trasformato la strada nel tunnel di vetro e metallo di una serra incandescente. Mi trasporto spaccata in due, grondante di sudore, con la fatica e lo sforzo disegnati sulla bocca, come in uno schizzo a carboncino, mi sento la lingua e la gola completamente asciutte, i denti inchiodati. Leggo in lontananza: Sant’Agostino. La fermata della metropolitana mi appare irraggiungibile, eppure se il barlume di mente che ancora mi rimane non mi inganna, sto finalmente tornando a casa. Sono state due settimane senza tempo ma egualmente dure per fatica, routine e solitudine. Quattordici giorni esasperanti per il ritorno regolare, quotidiano, prevedibile, di fatti ed eventi immodificabili, tutto predeterminato e scontato come da programma, dall’apertura alla conclusione. Mi stupisco d’essere stata proprio io a cercare e volere questo tipo di corso formativo per aspiranti dirigenti d’azienda di impostazione skinneriano-cognitivista, faccio fatica ad ammetterlo. Le mie due parti, me e me stessa, sonnambule diurne, smettono di procedere separate e si reintegrano provvisoriamente; dura poco; si sbloccano subito ad un passo dell’imboccatura della gradinata che scende dentro la metropolitana. Una spirale di fetore mi avvolge, investe la mia faccia, s’insinua su per le narici, penetra nella reazione naturale di disgusto che proviene dal mio stomaco. Il solito tanfo di muffa, impastato con miasmi di aria surriscaldata e di sudiciume mai rimosso, proprio del luogo. Con gesto rassegnato stringo tra le dita della mano destra, madide e scivolose, l’unico collo che mi porto appresso, con la mano sinistra libera cerco coraggio appoggiandomi al passamano brunito dalla polvere e bollente come il marciapiede che, passo dopo passo mi lascio alle spalle, scendendo con cautela la quindicina di gradini di porfido anneriti dai fumi, dallo smog, dal calpestio delle suole dei passanti. La luce artificiale di rare lampadine mi viene incontro, noto subito le molte di queste appese al soffitto bruciate e mai sostituite, la prospettiva che mi offre la scarsa illuminazione presente è squallida, un lurido atrio dal pavimento di gomma scolorita un tempo forse verde in più punti sbreccato e pericoloso, tre pareti buie attraversate da plurimi strati di segni, disegni e scritte osceni, cui sono appesi alcuni manifesti sbiaditi che sbadigliano frusti annunci di convegni e mostre di qualche anno fa. Mi allontano, entro nella penombra verdognola di un corridoio, riesco a stento a percepire la freccia che indica in nero, a stampatello maiuscolo: AI TRENI. La seguo controvoglia, un sospetto mi rende cupa, con la coda degli occhi mi guardo ripetutamente intorno. Nessuno. Procedo ugualmente e percorro diffidente il lungo corridoio che porta ai treni della linea 2. È lungo e viene sbiancato, solo a tratti, dalla luce tremula di un tubo al neon probabilmente guasto, che lo percorre per intero, seguendo senza variazione alcuna, la curva desolata del soffitto. Ai lati, per metà altezza da terra, corrono liste di piastrelle una volta forse bianche ora a causa delle muffe divenute di colore grigio-verdastro, colore vicino a quello scelto stranamente anche per le piastrelle in alcuni ospedali. Alla fine del budello, m’imbatto sul tracciato schematico e fosforescente che raffigura il percorso della linea 2 con tutte le fermate previste, leggo: Stazione centrale, esattamente a sei fermate da Sant’Agostino. Mi rianimo, cerco il biglietto con la mano non impegnata tastando nelle due tasche davanti del camicione di seta nera, tutto spiegazzato, intriso di sudore, incollato alle forme del mio petto sin giù a raggiungere le mie anche. Lo trovo con mio sollievo, lo infilo spedita nella timbratrice, salutando con favore lo scatto che mi apre l’accesso ai binari. Mi sistemo alla meglio, dopo qualche incertezza, sul primo gradino disponibile della scala mobile, pochi minuti interminabili, quelli che ci vogliono per scendere ma da sempre soffro di vertigini e di paura di scivolare dalle altezze, decido di socchiudere gli occhi e per fortuna sono finalmente sul marciapiede davanti ai binari. Sosto senza speranza di quiete. Il quadrante luminoso sopra la galleria d’uscita e di ingresso dei treni indica sei secondi all’ arrivo del mio. Ho poco più di qualche secondo per avvertire, alle mie spalle, la sopraggiunta presenza rumorosa di qualcuno. Mi volto istintivamente, di scatto, scorgo due ragazzi entrambi maschi, sui vent’anni, in tuta mimetica, teste rapate a zero, orecchini ai lobi delle orecchie e alla base dei nasi, borchie di metallo alla cintura, anfibi corazzati ai piedi, tatuaggi indecifrabili su avambracci e collo. Ridacchiano sgangheratamente urtandosi l’un l’altro con le spalle ma non riesco a capire se e per gioco o per sfida, getto un’occhiata furtiva, spalla contro spalla, si spintonano reciprocamente con le mani. Cado in paralisi da panico, riesco tuttavia a formulare delle ipotesi solo catastrofiche: ubriachi, drogati, folli, possibili terroristi? Afferro fulmineamente con le due mani il bagaglio e lo sollevo, come fosse uno scudo, all’altezza del petto, sento il mio cuore accelerare rapidamente i battiti, il respiro farsi corto e ansimante. Chiudo gli occhi con il viso nuovamente rivolto ai binari. Tutto a posto, arriva il treno, si ferma, non scende nessuno, salgono anche quei due continuando a sghignazzare, salgo anch’io, tre scompartimenti dopo. Guardo il mio orologio e scruto l’interno dello scompartimento, sono le 14,30 penso che nonostante l’ora c’è gente per mia fortuna. Meno male constato mentalmente mentre trovo un posto libero a sedere. Mi accorgo però ben presto che tutti, proprio tutti i presenti, non sono della mia stessa razza. Sono otto per l’esattezza, quattro cinesi e quattro negri, sicuramente senegalesi, non mi sbaglio a motivo di quei loro musi antracite dal profilo camuso. Il treno non ha ancora ripreso il movimento, indugia con tutte le portiere aperte, anche quella del mio scompartimento, questa lentezza è irritante e inopportuna, vorrei andarmene, scappare. Decido di attendere, schiacciata contro lo schienale del mio sedile dall’indifferente e distaccata estraneità di una giovane gialla seduta davanti a me. A capo chino, con il suo sottile sguardo obliquo, fissa un punto indefinito del pavimento di linoleum della vettura che si allarga e si perde davanti alle sue minuscole scarpe a punta di pelle bianca, chiuse. Balza dentro una specie di orso bruno, alto, corpulento, sbuffante ed ansante presumibilmente per la corsa fatta per acchiappare al volo il treno, che l’ha fatta proprio per un pelo. Nessuno gli bada. Ci muoviamo finalmente. L’orso bruno, questa è stata la mia prima percezione, è fermo là, con la larga schiena appoggiata alla parete vicina alla portiera. Senza darla a vedere, con il solito sistema dello sguardo fisso e perso nel vuoto, ne seguo tuttavia i movimenti. Completamente a torso nudo, il pelo sul torace e presumo sulla schiena è folto e nero, riccioluto. La cintura di scamosciato che passa sotto un pancione da donna incinta da otto mesi fa fatica a tenere su i calzoni di fustagno color fango infilati dentro stivali da buttero corrosi nel tacco e sulla punta. Il viso è tondo, come una luna piena, abbronzato e malamente sbarbato, capelli e baffi a ciuffi spioventi e per finire sulla fronte imperlata dal sudore una bandana rossa a quadretti bianchi. Tiene le braccia e le mani dietro la schiena possente… forse nasconde qualcosa… se fosse lui il rapinatore di turno? Mi distraggo dal pensiero e dall’osservazione. Incomincio a stare male. D’improvviso, mi interrompe l’ipocondria dei pensieri il suono di un violino. Proviene dal lato destro della portiera, ossia da dove si trova collocato quell’essere massiccio. Il canto umano dello strumento si muove incerto, sulle note scariche dell’avvio, della preliminare ricerca di accordi armonici, poi, però, avanza sicuro nel suo preludio solitario, deciso e compatto, lasciandosi avvolgere quasi fosse una morbida imbottitura, dal singhiozzo sferragliante del treno in corsa, sovrastandolo. Emerge, calmo e sicuro, fascinoso, allo scoperto, proprio quando stiamo passando sotto gli architravi di ferro, il bitume ed il cemento armato che reggono gli asfalti stradali delle strade milanesi sopra la metropolitana. Le varie scale melodiche si rincorrono come ragazzi all’uscita di una scuola, si dipanano, una dietro l’altra, con convinta, esperta scioltezza, come il filo continuo di una soffice e morbida matassa di lana. Vibrano, trepide e fresche, vive, come le acque di un largo fiume in aperta campagna. Sono le battute iniziali de La Moldava di Smetana. La musica senza mai interrompersi scivola piana e maestosa, solenne e insieme pacifica. Prosegue il suo corso nonostante l’andirivieni indifferente dei passeggeri vecchi e nuovi, alle fermate successive, anzi assume col trascorrere dei minuti tonalità sempre più ferme e convinte. Arditamente conferisce alla lirica melodica che emana dall’archetto la forte nostalgia di quelle note che più delle altre sono proprie del cuore del cuore e della fantasia. Il ritornello alterna, con sapiente equilibrio, picchi concitati e tumultuosi a spianate lente, dolci, ondulate. Tesse orditi e fraseggi musicali e vi ricama sopra filigrane di trilli e fremiti di arco e corde. Ritrovo il benessere bambino che genera la riscoperta dello stupore, quell’orso, mi dico, non è poi così orso, è persino bravo. Mi accorgo di non essere la sola ad aver preso coscienza dell’evento e del suo protagonista, ora, altri sguardi ed altri ascolti di compagni di viaggio, recenti e trascorsi, senza difendersi, si riposano, rilassati, sull’inattesa fonte di musica. Gli occhi si posano sulle grosse dita rosee che non ricordano per nulla quelle scheletriche di un violinista classico e che tuttavia si muovono sulle corde con estrema leggerezza e stringono con grazia civettuola e scaltra professionalità l’archetto. Il fazzoletto rosso a quadretti bianchi, zuppo di sudore, è sceso dalla fronte a sotto il mento. Tutti i passaggi della composizione vengono azzeccati, con inaspettata maestria, nel rispetto dello spartito originale. Siamo tutti rapiti dentro la spirale fascinosa che fa da finale al brano con i suoi crescendo vibranti che incalzano il leitmotiv su cui il musico improvvisato insiste con particolare esotica malizia. Sotto il dedalo delle vie e delle viuzze di Milano, a dispetto dell’ora deserta e del silenzio tetro e metallico del pomeriggio, scorre un fiume che ha per argini i binari della linea 2, un fiume dalle acque fulgide e gorgoglianti su cui si specchiano ponti di pietra antica, castelli, villaggi di capanne contadine in cui si respira aria di festa campestre di tutti quanti stretti intorno a due giovani amanti che vanno a nozze. Un fiume che sfila tra due sponde fitte di boschi odorosi, d’aromi silvestri e profumo di fiori che, come ninfee rosa, si schiudono al bacio di lune incipienti. L’incanto del brano si rinnova ancora ed è a portata di tutti noi che l’ascoltiamo, medica le nostre ferite nascoste e ferma il tempo della banale corsa di un treno metropolitano milanese nell’eternità. Spacca le lamiere che lo compongono, curve e pesanti come corazze, per fare entrare aria, libera gli sfiatatoi intasati della sotterranea con una vigorosa sferzata di tramontana e punta dritto verso la cappa di ceneri e fumi che incombe sulla città trasformando una striscia di Milano in un anfiteatro a cielo aperto e l’assolo del musicista straniero in una filarmonica al gran completo. Cessa l’incanto sulle note della sommessa chiusa che caratterizza la composizione quasi a suggellare un ultimo sussurro sulla parola “grazie” pronunciata dal violinista in un italiano stentato. Un bambino biondo di pochi anni, dalla pelle candida, forse un albino, si avvicina all’uomo e gli porge una moneta. Tutti i passeggeri lo imitano, anch’io. Sono arrivata: stazione centrale, sono le 14,50, in tempo per il mio treno del ritorno. Mi lascio alle spalle un intermezzo di musica, una frase musicale posta tra due parentesi che racchiudono anche un brano dal pentagramma della mia vita. Ho due ali per sollevarmi a qualche metro appena dal marciapiede dove, pure, sto camminando. Mi vedo nitidamente appena sotto, un essere umano assieme ad altri, miei simili, uguale e insieme diversa, tutti in fila, in attesa di un gradino di scala mobile che ci conduca insieme verso una possibile apertura all’esterno.