Mi ha destata il vento. Forte e aspro si è levato e senza alcun ritegno ha deflorato con veemenza le esili persiane di abete rosso chiuse sulla finestra, a ponente, della mia camera. Con un suono di buccina ha fatto irruzione tra gli assi incollati e ne ha lacerato, tra gemiti soffocati, quasi umani, la fragile consistenza. Ieri sera le avevo fermate e serrate saldamente. Come un brivido verde, uno spettro color smeraldo, un guizzo d’elettricità, è passato attraverso le fessure dei muri della mia stanza, fischiando irato alte note, ha insinuato fremiti e turbinii ansimanti nell’immota imperturbabilità del mio sonno sino a distogliermene completamente. Il pendolo patetico del pianterreno, con il suo orario segreto e la sua abituale puntualità, suona le cinque del mattino in questo momento. Riesco appena a percepirlo, tendendo l’orecchio che non affonda nel cuscino, oltre i sibilanti richiami di Eolo. Fuori, nel buio, si addensano nubi premute dalla violenza del vento del nord, galoppano accanto finché ruzzolano una sull’altra come alberi giganteschi recisi dentro una fitta foresta. I lampi balzano lesti come sorci ed il tuono crolla con peso tremendo: è tempesta. Posso scorgere, stando stesa nel mio letto, oltre i vetri madidi della finestra, resa completamente nuda dal vento, la fosforescenza abbagliante di un’epica battaglia che si consuma in cielo tra giganti e titani crudamente avvinghiati nel loro reciproco assassinio. Mi assale la stessa sensazione angosciosa che sentivo da bambina in momenti simili a questo. Era solo ieri quando, addormentandomi, stringevo in mano il gioiello che fu di mia madre morta. Il giorno era stato insolitamente torrido e afoso. Il vento appena percepibile, quasi tiepido, alitava sulle genzianelle blu, sulle aiuole del roseto e lambiva i rossi telai degli aceri. Passeggiando ieri, poco prima di cena, lungo i sentierini del giardino, avevo pensato che, come il dolore del lutto, impercettibilmente anche l’estate se ne stava andando. Istintivamente portai la mano sul monile di mia madre che dalla sua morte tengo al collo e ve la tenni, salvo alcuni intervalli, per tutta la sera. Prima di chiudere gli occhi e riposare, mi dissi che sarebbe rimasto ben stretto, per tutta la notte, fra i tepori dei miei polpastrelli. Constato ora, con delusione, che tra le dita delle mani stringo solo aria. IL gioiello è sicuramente nascosto dentro qualche piega delle lenzuola. Tra la mia memoria e il vento che sta ancora gravando sulla stanza resta solo il filo di un ricordo, di colore ametista, di cui mi devo prontamente rimproverare. Fu proprio all’inizio dell’estate l’ultima notte in cui ella visse. Notte calma, senza vento, come tutte le altre che la precedettero nel mese di giugno. Senonché ella moriva e la sua morte avrebbe mutato la natura e il mondo ai miei occhi. Avrei visto le più piccole cose che fino ad allora mi erano sfuggite come se le vedessi per la prima volta e ne carpissi sempre per la prima volta i loro intrinseci legami prima invisibili e impensabili. Mi chiedevo come potessero gli altri continuare a vivere mentre lei se ne stava andando. Mi sorprese la gelosia e mi punse, era la gelosia per lei che era prossima ad incontrare l’infinito. Quando fu il momento mosse appena le labbra per parlare ma non pronunciò parola, i suoi occhi in sua vece mi parlarono. Come un giunco sotto l’impulso di brezze vigorose lei tremò in tutto il suo corpo mentre, ne sono convinta, la sua anima si affacciava sulle acque dell’abisso. Fu allora che la mia mano e la sua si incontrarono sopra quell’unico ornamento femminile che la malattia le aveva concesso di tenere sul petto. Ella acconsentì declinando lo sguardo e spegnendo il respiro. Le accomodai il disordine dei capelli sparso sulla federa del cuscino e il capo reclinato dalla morte. Le sfilai il gioiello unito a quel suo estremo saluto che, decisi, avrei d’ora in poi tenuti vicini al mio cuore come unico segreto legame tra me e lei. E’ curioso come per un tempo indefinibile rimasi lì immobile a contemplare l’orma del corpo di lei che ne era fuggita via definitivamente e l’impronta lasciata sul suo petto dal gioiello a forma di arboscello che aveva voluto lasciarmi, entrambi stavano inerti sullo stesso letto. Il dolore che provavo non mi impedì tuttavia di udire una mosca ronzare nella stanza, un ronzio sottile, intermittente, blu, che veniva ad interporsi tra me, quel che restava di lei e la calda luce del sole all’alba che interveniva ad interrompere ulteriormente la calma composta creatasi nella stanza. Ora la sua tomba è già tutta verde, tanto che non la si può distinguere dal prato circostante se non per la lapide bianca incisa che in parte la ricopre, sono trascorsi solo tre mesi. Ha raggiunto nelle dolci case, nelle sicure stanze di alabastro, tanto ermeticamente suggellate, il suo compagno che da tempo la invocava sussurrandole “Vieni a me”. Vivo sola nella casa di mio padre, da quella notte, se escludo le rare visite della governante che mi aiuta nelle pulizie. Lampi di luce densi e liquidi insieme irrorano la stanza della loro novità imprevista, fendono le nuvole tumide e lugubri ancora presenti in cielo accendendo fuochi balenanti. La tempesta ha bruciato la mia notte e sta arroventando di nostalgie cupe ed antiche le mie carni, mi ferisce rabbiosa gli occhi e l’animo. Potessero allontanarsi presto da me questa furia e questa sofferenza. Grande è la mia angoscia e profondo il mio sgomento, entrambi difficili da sostenere anche dentro la luce consolante del giorno nascente. Avverto lo stesso smarrimento di spazio e tempo che provai due notti fa, quando fui svegliata da un incubo ed era la mezzanotte. Avevo sognato che ero uscita all’alba del giorno antecedente con il mio cane come facevo quando ero ragazza ed ero andata a visitare non il giardino ma il mare. Giunta là, improvvisamente, dal profondo erano salite in superficie alcune sirene che mi guardavano con occhi fissi e tondi da pesce. Rimanevo immobile, ipnotizzata da quegli sguardi finché la marea che era presa a salire non ebbe riempito le mie povere scarpe, il mio grembiule, la mia cintura, il mio corsetto. Sembrava volesse inghiottire anche me, ma io prontamente mi ero mossa, appena in tempo. Il mare tuttavia inseguì egualmente la mia corsa tanto che, senza voltarmi potevo sentirne lo sprone argenteo e freddo sulle caviglie nude. Fu allora che le mie povere scarpe, il mio grembiule, la mia cintura, il mio corsetto fradici traboccarono di minuscole perle d’oro ed anche la mia bocca ne fu presto ricolma. Mi venne meno il respiro e fu un attimo rizzarmi a sedere, ansimando sul mio giaciglio e guardarmi attorno, nella penombra, attonita, sospesa tra la libertà del sogno e le ovvietà banali e convenzionali del reale. Mi rinfrancai lentamente e mi aiutò ricordare che nel sogno il mare, ritirandosi da me dopo avermi bagnata e ricoperta delle sue perle d’oro, mi aveva rivolto un cenno riverente di saluto, quasi a suggellare una galante complicità tra lui e me. Una luce tenue ed obliqua attraversa ora diagonalmente la mia stanza, l’alba vi si è pienamente introdotta rifulgendo stranamente. Il troppo chiarore mi opprime il petto come il peso mesto di certa musica d’organo in chiesa. Si risveglia in me la coscienza dei miei interni contrasti, della mia dualità intima, mai da me composta nell’agognato uno, su cui si imprimono, come suggelli di ceralacca su una lettera, significati ardui e penosi da proferire, sentimenti per lungo tempo sofferti in silenzio e così tanto intensamente che nessun lenimento può sperare oramai di sopirli. La tempesta è cessata, ha smesso di trinciare l’aria, poche gocce cadono ancora dalle grondaie, colano verso i canaletti tracciati sul terreno e raggiungono gli alberi del frutteto. La polvere dei vialetti del giardino, già intrisa di pioggia, si sta rassodando. La natura che solo un’ora fa gemeva sotto il turbine, stringeva i pugni, digrignava i denti e scuoteva freneticamente i suoi verdi capelli, si è tuffata dentro brezze azzurre ed armoniche come accordi di violino. Calano in cielo ad una ad una le poche stelle evidenti. Mi alzerò, vestirò l’abito di mussola bianca che ho terminato di cucire proprio ieri e scenderò in cucina al piano terra. Un fatto è certo: il vento che stanotte ha investito questa casa e la natura intorno, ha investito anche me suscitandomi dentro un’inquietudine ardente che mi impedisce di riprendere sonno. Questo giorno sarà il mio giorno di vento, la mia epifania, ora ne assumo piena coscienza.

Ho acceso la lampada, anche se superflua, l’ho posta all’estremità dell’angolo destro del tavolino di noce che fu un tempo il punto consueto dove la mia famiglia lasciava raffreddare in estate le vivande appena preparate dalla cuoca. Da quando nella casa non sono rimasta che io, è diventato uno dei molteplici scrittoi di cui mi servo per scrivere i miei versi o dove stendo le mie riflessioni o gli appunti di studio. Mi siedo al tavolino e poiché esso è collocato proprio davanti alla porta- finestra della cucina riesco a guardare comodamente fuori attraverso i vetri. I venti impetuosi della notte si sono ritirati nelle loro camere aspre e gli aceri del giardino hanno smesso di tendere i loro rami simili a membra umane costrette nello sforzo di contenerne la furia devastante. Il paesaggio naturale si è posto come in ascolto ed ogni suo elemento sembra aver ritrovato e riconquistato inaspettatamente il suo proprio posto, come penso accadde nell’Eden dopo che fu passata la spada dell’Angelo giustiziere. Non mi stupirei, qualche presagio canoro me lo suggerisce, di scorgere in cielo i voli corti del mio pennuto bobolink dal petto sporgente e pulsante. Il nuovo mattino ha in serbo fiamme rosse all’orizzonte. Già l’autunno che verrà si disvela e macchia di sangue i vialetti del giardino con i suoi cumuli di foglie strappate. L’acqua della fontana dei pesci rossi si è quietata   riflettendo placida il movimento rapido dei cirri passeggeri che da ponente salgono a nascondersi dietro le colline i cui sentieri, visti da qui, danno la curiosa impressione di assomigliare ad arterie e vene del corpo umano, coi loro colori rossi e blu. Nelle aiuole languono disfatti, nei loro tardi odori di decomposizione, completamente intrisi di pioggia, i miei fiori: le rose e le genziane che spandono tra il verde dei trifogli i loro nastri di raso rosa ed azzurro. Nel frutteto si raccoglie l’ultimo oro della stagione estiva e miriadi di topazi in grappolo incastonano i tralci della vite trasformandola in un levita scintillante.

Apro il cassetto, ne traggo fogli e penna. Lo splendore del giorno, ormai completamente levato, penetra dalla finestra ed inonda la cucina, vanificando nel suo fulgore, la luce della lampada ancora accesa. Intingo il pennino nell’inchiostro e senza alcun sforzo i scuri segni cui affidai sin dall’età fanciulla i miei significati scorrono piani e serrati dentro le loro fila ordinate, blandendo appena l’integrità verginale del foglio. Ho un proposito chiaro in me, scriverò oggi il mio testamento. Mai giorno della mia vita passata fu più propizio di questo. Iniziato con il vento si chiuderà con il vento. Sarà pari a tutta la mia storia, una sferzata di vento contro le dure catene delle convenzioni. Sorrido al pensiero che io, di catene di questo genere, ne ho sopportato tante, da sempre. Basti pensare che da quando sono nata non ho mai lasciato questa casa se non per brevi periodi molti dei quali per entrare in un’altra casa, la clinica, dove ho curato i miei occhi malati. L’ho voluto e deciso io stessa, arrivata a vent’anni, nell’età della ragione e delle scelte di vita. Lascio questo mio testamento al mondo degli uomini e delle donne, a quelli che nasceranno e vivranno nei secoli a venire; esso è composto da pensieri semplici che mi vengono dettati dalla natura più profonda di me. Lo affido a mani che non conosco e che non potrò mai vedere e stringere, sperando convintamente che non verrà negletto ma considerato compreso, sia pure usando molta indulgenza verso di me. Non ho nessuna proprietà, nessuna tesoro in denaro, in gioielli, nessun bene materiale da lasciare. Non possiedo niente, nessuna ricchezza da tramandare se non quella cui io attribuisco un valore speciale, la ricchezza di uno strano amore. Ho amato sempre e molto; intensamente ho desiderato amare e preteso di amare e fino a che ho amato ho voluto amare di più. So senza dubbio che il mio strano amore continuerò ad offrirlo anche oltre la mia vita che sta quasi per concludersi poiché questo strano amore è stato esso stesso la mia vita, la sua essenza; esso è la mia immortalità, l’unica che io conosca. Ho imparato, giorno dopo giorno, questo strano amore, i suoi alfabeti esoterici, le sue parole, le sue frasi, la sua sintassi. Ne ho colto il senso, talvolta, nei miei sogni, spesso nei miei versi, ma molto di più negli occhi di chi ho amato quando si incontravano con i miei per riconoscervisi, per fondersi in unità, beatamente ignari, come quelli dei bambini. Grazie a questo strano amore mi è stato concesso di comprendere quello che diversamente avrei giudicato bizzarro, insensato, forse persino morboso. Questo strano amore mi colpì dentro più volte a morte, ferendomi profondamente. Fui mutilata per sua causa, fui anche, nel suo nome, depredata di qualcosa che era mio, senza che io conoscessi il nome dei miei ladri (sarebbe forse servito?). Non nutro, né ho nutrito alcun risentimento per alcuno dei miei tormentatori, nessun proposito di vendetta, anzi posso tranquillamente sostenere che il più timido passero del mio frutteto non ha nulla per cui temermi. Molto io amo ancora, anche le cause che mi uccisero. Mi hanno scerpato e disgiunto come una penisola dal suo mare, ma io nonostante questo, permango dentro al mio strano amore. L’io e il tu, il me ed il me stessa sono stati messi l’uno contrapposto l’altro, spesso sono stati sviati, invitati ad abdicare reciprocamente come se non fossero essi stessi che aspetti di un’unica realtà vivente, quella umana. Non mi dispiace affatto che a coloro che amai e sono stati tanti sia stato concesso di capire la mia fuga, il mio silenzio, il mio, solo apparente, isolamento dal mondo. Quando i tempi diverranno maturi, in un solo individuo, che è persona, quello che è stato diviso sarà finalmente intrinseco e la breve tragedia della carne, conterà assai poco. Si disperderanno come sabbia fine del deserto nel vento i pregiudizi, il vento spazzerà via gli steccati, con lui, dopo di lui, riprenderà vita la giustizia e con la giustizia ritornerà la pace. Ogni persona, sia maschio che femmina, sceglierà, da se medesima, il suo proprio modo di vivere e di amare. Mi torna alla mente un antico inizio di pensiero che ebbi a sperimentare un giorno, molto tempo fa, senza però riuscire a completarlo, a finire di pensarlo. Quando mi balenò nella mente, ricordo, che non trovai subito l’arte di descriverlo con la parola ed esso fuggì via lasciandomi vuota e triste. Non so dire perché, forse per le illusioni che ho appena accennato e affidato a questo testamento, quel pensiero incompiuto sta ripresentandosi. Mi pare di sentirlo respirare, vivere e crescere dentro di me, al pari di una madre gravida posso sentirne i suoi movimenti, i suoi sforzi per liberarsi, nascere, esserci, esistere, prendere vita ed indipendenza sul foglio bianco. Si tratta di un pensiero semplice, breve, dolce e forte insieme. È la duplice certezza che non sono vissuta invano e che la speranza e lo strano amore che consegno alle generazioni future, non sono solo illusioni, continueranno oltre me, si realizzeranno un giorno, dopo di me ma non sarà troppo lontano, troppo tardi.

Guardo fuori, il vento è ripreso, un benedetto vento leggero, tepido e asciutto dal sud; forse per la prima volta, dopo tanto, mi sento felice. Poso la penna sul foglio, mi alzo, vado alla porta- finestra, l’apro ed esco nel giorno.

 

 

(1) Emily Dickinson è una poetessa americana nata a Amherst, Massachusset nel 1830 e morta a Amherst nel 1888. Condusse una vita molto riservata, apparentemente solitaria e isolata non allontanandosi che per brevi periodi dalla casa di famiglia.  Ciò non le impedì tuttavia di raggiungere vette poetiche altissime e straordinariamente innovative tanto da venire considerata una delle maggiori rappresentanti della poesia americana moderna. Questo racconto si ispira, in modo libero e fantasioso, alla sua figura, alla sua biografia e ad alcune delle sue composizioni poetiche più conosciute (cfr Prefazione a cura di Marisa Bulgheroni “Accendere la lampada e sparire” in E. Dickinson, tutte le poesie, Mondadori, 1977).

(2) Marisa Bulgheroni: Nei sobborghi di un  di un segreto Ed. Saggiatore 2001.

Potrebbe anche interessarti...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *