Non l’ultimo ma, se non erro, il penultimo dei romanzi di lan McEwan scrittore anglosassone piuttosto prolifico e sicuramente assai raffinato nello stile almeno quanto originale nei contenuti, sottintende e descrive un tema classico della sociologia familiare non solo contemporanea il cosiddetto triangolo familiare: lui, il marito, di norma ignaro, lei, la moglie, da tempo insofferente o peggio indifferente per carattere e coesistenza al coniuge e perciò ineluttabilmente fedifraga, l’altro in perenne agguato e ben disposto agli assalti diurni e notturni permessi e concessi dalla fedifraga come si richiede a tutti gli amanti che si rispettino. Ben presto, anzi prestissimo, rispetto allo srotolamento tipico dell’altrettanto classica routine del triangolo “amoroso” di cui sopra, il lettore si accorge che a narrare le vicende e a discettare addirittura intorno alle stesse ponendosi a capo di filosofemi da adulto, colto e sopraffino, è un insolito protagonista che in teoria non avrebbe voce a farlo e neppure intelletto diciamolo chiaramente ancora pronto ad elaborare un eloquio di senso compiuto e di siffatta portata, trattasi per l’appunto di un feto, di un bambino, ancora non nato, che ancora sta nel ventre materno, diciamo nella posizione privilegiata per il parto, ossia a testa ingiù, posizione nella fattispecie doppiamente privilegiata ripeto di chi sta in mezzo come un arbitro su di un ring atipico dove si svolge un tipo di pugilato anomalo: lei e lui contro l’altro che, guarda un po’, è anche il fratello cornuto. All’embrione tocca, ancora ma per poco anonimo, di vedere sentire intercettare interpretare e… valutare filosofeggiando anche le vicende umane che preludono non tanto ai rapporti amorosi fra la fedifraga e il cognato, bensì a un omicidio anzi ad un fratricidio non per motivi d’amore romantico ma per meri interessi finanziari. Da come viene presentato il ben noto triangolo si capisce subito che si tratta di una vicenda sospesa tra fantasia creatrice e immaginazione anomale proprie dello scrittore e tragicità intesa nel senso della tragedia greca antica in cui viene architettato un omicidio familiare di cui moglie e cognato alleati fra loro sarebbero gli esecutori ideatori e il marito, cornuto e fratello, la vittima. C’è da dire però che la pagina si volta quasi subito dopo questo ingresso tragico per darci le coordinate di una nuova, anzi nuovissima, prospettiva che fonde il tragico della tragedia greca classica antica, quella di ieri, cui parrebbe richiamarsi ad un ordito più prossimo ai giorni nostri, in breve ad un film horror di oggi. La curiosità è data dal fatto che a narrare le sequenze e le scene del film horror sia quel narratore sorprendente originale e un tantino anomalo anche lui in quanto feto ossia un essere umano in uno stadio di sviluppo prenatale quindi precognitivo. Come può un feto umano sia pure al nono mese proporsi al lettore come un narratore eloquente forbito attraente accattivante se, notoriamente, è probabilmente sordo, è cieco, ha polpastrelli e dita e fosse nasali ancora da perfezionare, e, tutt’al più, probabilmente degusta l’agrodolce del liquido amniotico materno navigandovi dentro? Non solo, ha pure una voce narrante, suadente e fascinosa, ironica al punto giusto, ha pensiero e capacità di giudizio sopraffini sul passato e sul presente, inoltre, a quanto pare, anticipa anche il futuro, in breve se la dà da filosofo o se non proprio almeno da acuto ed arguto telecronista in quanto non sembra lavorare di fantasia ma essere piuttosto ben calato nella realtà. Realtà invero squallida a volerla dire tutta. La madre e il cognato hanno in mente anzi progettano di far fuori rispettivamente il marito e il fratello per intascare una bella somma di denaro; la loro tresca come il loro turpe progetto vengono intuiti e decodificati dal feto cui tocca la bella sorte di costituirsi quale testimone che si sta ordendo e che viene da lui percepito finemente e realisticamente, con la fermezza del testimone verace e la perspicacia da vero campione di saggistica. Dalla sua posizione, non proprio comoda, ha modo di percepire ed udire tutto quel che serve per capire e snocciolare, con insolita perizia, la trama che madre e zio stanno ordendo alle spalle del padre; lo fa con mente lucida e fredda anche quando sembra registrare contenuti a dire poco inaffrontabili o sorprendenti. Da dentro al suo guscio, da cui discenderebbe il titolo, che guscio poi non è, lascia infatti spazi ed aperture anzitempo, -di norma, a meno che non si tratti di animali marini e per analogia potrebbe starci mi sento proprio di dire- i semi contenuti nei gusci ne restano imprigionati sino al momento della maturazione allorquando il guscio si rompe per fare uscire il suo prezioso protetto, il seme. Qui sembra invece che tutto sia capovolto come anche il suo protagonista parrebbe lasciar intendere. E’ decisamente precoce, tenuto conto di quello che è realmente, e soprattutto, come soggetto narrante, infatti, non è ancora un soggetto in piena regola, ma sembra tuttavia saperla molto lunga non solo sulle vicende che lo riguardano da vicino quale i rapporti sessuali tra i due amanti o lo toccano e coinvolgono direttamente, come ad esempio, il tradimento del padre da parte di una madre snaturata che è pronta a renderlo orfano subito dopo la nascita e in contemporanea l’esistenza di uno zio fratricida.
Tutto mi è apparso innaturale: nei mammiferi evoluti, compreso l’uomo, l’accoppiamento non è di un solo istante ma è lungo rituale che raggiunge punte assai raffinate, almeno, di norma è così: c’è il piacere sessuale ma anche l’innamoramento e se tutto procede si va verso il consolidamento della coppia con la prospettiva anche biologica che l’amore crei la giusta interdipendenza tra i due partener che, innamorati l’uno dell’altro, si avviano a mutare le loro priorità e le loro abitudini per restare in contatto, per dare una buona impressione di sé all’altro e disporsi a condividere accettare e proseguire il rapporto di coppia nel migliore dei modi auspicabile. Nel romanzo nulla di tutto questo.
Nel romanzo si prospetta e dipinge l’esistenza umana come potrebbe avvenire in un teatro in cui un narratore descrive e tratteggia un mondo occidentale contemporaneo a tinte fosche, aride, spietate, feroci e ciniche tutte tecnicamente frutto di meri calcoli politico industriali e di potere in cui non vi è posto per l’amicizia vera, per la solidarietà lungimirante e per il rispetto dell’ambiente e del prossimo che affranca dalla paura, dalla fame e dalla solitudine, per l’atteggiamento caritatevole che scalda corpo e anima tramite l’accoglienza e l’empatia, per la pace che pone le basi della coesistenza umana, ma solo per le bugie, la falsità, i calcoli, le miserie materiali e morali, i tornaconti personali ,le frodi, gli inganni e tradimenti e, finanche, guerre assassinii e morti su morti più spesso innocenti. Troppo, troppo, davvero.
Condivido ma solo per concludere qui quello che sicuramente è venuto da condividere anche a voi come a me almeno così reputo quello che da taluni critici è stato osservato: il romanzo è una riedizione tutta speciale dell’Amleto, tragedia cui sembra, alla fin fine, richiamarsi il testo narrativo come ad un baluardo culturale e letterario di alto spessore e pregnanza della tradizione letteraria anglosassone, intramontabile. Il dubbio qui come là, la fa da sovrano assoluto. Anche il feto sine nomine del romanzo di Mc Ewan alla fin fine si trova a ricalcare, cambiate le cose da cambiare le stesse domande, le stesse tristi vicende, e gli stessi angoscianti soliloqui che furono già di Amleto con una differenza però, vada per le analogie, ieri come oggi, il mondo evoluto occidentale sembra non essere sostanzialmente cambiato, gli scenari sembrano apparire analoghi, ossia incerti sconvolgenti caotici perennemente in bilico sull’autodistruzione e la concomitante distruzione dell’umanità e della terra, tuttavia una cosa è certa in rimando alla domanda incerta “esserci o non esserci”, o come nel romanzo “nascere al mondo o non nascere al mondo” può essere la seguente: vale la pena di proseguire di continuare in questo mondo e insieme al principe Amleto, andare oltre quella stessa domanda, occorre, in breve, fare tutto quello che è possibile è nelle nostre possibilità per essere presenti a noi stessi e agli altri, per lottare e combattere costruttivamente sempre per giuste cause perché questa è in sostanza la vita.