“Nel presente articolo vengono prese in considerazione ed esaminate le principali posizioni e matrici teorico – culturali della psicologia dello sviluppo e della psicoanalisi infantile contemporanee che si sono occupate delle conseguenze che esperienze dolorose precoci, specie se reiterate nel tempo, possono indurre nel bambino condizionando pesantemente il suo destino evolutivo”.

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Quando viene al mondo un essere umano il suo universo psichico è indistinto ma non è vuoto, vi sono presenti degli schemi organizzativi, primitivi, istintuali, che derivano dal bagaglio genetico e sono frutto dell’ereditarietà biologica legata alla specie umana, ci sono poi i tratti psicologici che si ricevono dai genitori e che vanno a costituire, nel loro insieme, le premesse psichiche di partenza. Questi schemi sono alla base di quello che sarà poi lo sviluppo psichico, sono i primi mattoni di quella che nel tempo diventerà la casa di quell’essere, la sua identità, la sua stessa struttura di personalità. Esiste una logica, un principio secondo cui l’energia si organizza per diventare struttura? Freud ha individuato tale logica in quello che ha chiamato “principio del piacere” inteso sia come ricerca del gratificante sia come evitamento sia come superamento dello spiacevole. Il tema del piacere e del suo opposto (1905), il dispiacere, si intrecciano con la dinamica dei bisogni e ad un livello più sofisticato dei desideri. La rottura di un equilibrio produce una situazione   spiacevole e questo dispiacere viene sperimentato come eccitazione che spinge l’organismo ad organizzarsi per farvi fronte; è a questo punto che l’energia psichica prende forma e si organizza nella struttura che conosciamo come Io. Nella topica freudiana l’Io si pone come filtro tra dentro e fuori, tra mondo interno dei bisogni e il mondo esterno, l’ambiente, il mondo delle possibilità. Lo sviluppo storico dell’Io, la cosiddetta personalità, nasce come necessità di mediare due esigenze diverse: le personali, legate al principio del piacere, le ambientali, rispondenti al principio di realtà. Secondo la teoria freudiana, lo sviluppo strutturale della personalità si compie attraverso l’interazione continua fra questi due principi tesi a realizzare un reciproco adattamento (1920, 1922). Il discorso sul piacere e sulle capacità di poterlo controllare, dirigere e modulare, richiamano studi di tutt’altro genere che nascono dalle ricerche sul cervello e che, a partire dagli anni cinquanta, caratterizzano la centralità delle Neuroscienze. L’esperienza del piacere accende, attraverso la memoria, la tendenza a ripeterla, e diventa indicativa di un legame, di un attaccamento e, quindi, di una dipendenza. Domandiamoci: in che misura tutto questo rientra in una prospettiva naturale e fisiologica, e quando invece si rende necessario parlare di dipendenza non più naturale né fisiologica? In ogni essere umano la dipendenza è uno stato di base. L’essere umano nasce dipendente, anzi, ha bisogno di un prolungato periodo di accudimento prima di essere in grado di assolvere ai propri bisogni primari. L’evoluzione dello sviluppo umano comporta che il processo di crescita implichi un movimento da uno stato di totale dipendenza, o dipendenza assoluta, ad uno stato di dipendenza relativa o selettiva che chiamiamo autonomia. Nel bambino la conquista della posizione eretta, il coordinamento motorio e la manipolazione, lo sviluppo cognitivo e del linguaggio che gli consentono autonomia di esplorazione e di conoscenza del mondo, espressione di sé e relazione con gli altri, sono i primi passi di un’evoluzione che durerà tutta la vita e che si concretizzerà, nell’età adulta, non solo nella capacità di occuparsi dei propri bisogni ma anche nella capacità di occuparsi di quelli degli altri, come nel caso dei figli.

Lo sviluppo umano corre lungo questo asse che collega i due poli; detto percorso viene definito individuazione-separazione. Si tratta di un processo psicologico di distacco o di svincolo che si concretizza nel prendere le distanze dal legame di dipendenza dalle figure parentali, per intraprendere una ricerca volta a definire la propria individualità, ad affermare ed autodefinire la propria identità e la propria esistenza individuale nel mondo. Il bambino, sin dalla nascita, risulta capace di stabilire relazioni, sia pure asimmetriche, rispetto agli adulti che lo accudiscono. Sin dal primo giorno di vita il bambino svolge un ruolo attivo nel definire la sua relazione con chi si prende cura di lui. Si coinvolge ed è coinvolto in uno scambio interattivo e si mostra capace di autoregolare i suoi comportamenti, attraverso meccanismi di feedback, con chi interagisce con lui. Gli studi compiuti da Bowlby (1989) e dai suoi collaboratori hanno evidenziato come il legame iniziale che ogni bambino instaura con la propria madre dipenda da un bisogno innato di entrare in contatto con gli appartenenti alla propria specie. Il comportamento di attaccamento, che il bambino manifesta verso un adulto di riferimento che ritiene in grado di affrontare il mondo in modo adeguato, esprime una posizione entro la sua evoluzione e corrisponde al suo bisogno di dipendenza sano in una fase iniziale del suo ciclo vitale. Se l’obiettivo esterno del sistema di attaccamento è quello di garantire la vicinanza con il caregiver, quello interno è di motivare il bambino ad una sicurezza interiore. Il compito biologico e psicosociale dell’adulto caregiver è quello di essere una base sicura per il bambino da cui il bambino si possa affacciare verso il mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo che sarà accolto, nutrito, rassicurato, confortato. Quindi, il ruolo del caregiver è quello di rendersi disponibile quando è chiamato in causa dal bisogno di dipendenza del bambino, intervenendo solo quando sarà necessario, ossia quando il bisogno di dipendenza del bambino si esprimerà. La bidirezionalità di questo primo scambio consente al bambino lo sviluppo di un senso di sicurezza e di fiducia in sé, nonché un rafforzamento della relazione tra lui e l’adulto. Se gli adulti sono responsivi e competenti, il bambino si sentirà parte della famiglia, si instaurerà un circolo virtuoso in cui il bambino accrescerà la sua autostima e la capacità di gestione delle situazioni in cui dovrà confrontarsi con altri e con sé stesso. Se, viceversa, qualcosa interviene e non fa funzionare questo primo prezioso scambio relazionale, il bambino potrà mettere in atto comportamenti che possono aiutarlo a difendersi, anche se in modo non funzionale per la sua crescita e il suo benessere futuri. Il cercare e non trovare l’adulto di riferimento disponibile, da cui il bambino dipende per la sua protezione e sopravvivenza, crea nel bambino una vulnerabilità che si esprimerà nella paura costante della perdita dell’altro. Questo scambio relazionale e la conseguente sicurezza o insicurezza interiore che il bambino sviluppa sono connessi alla futura capacità di autodefinizione di sé e di autorealizzazione nella vita. La capacità di fronteggiare gli eventi in momenti critici o di cambiamento dipenderà proprio dal senso di sé che si è potuto sviluppare in questa fase iniziale della vita. Il legame che il bambino sperimenta con il suo caregiver modellerà i successivi legami, poiché nel momento del contatto con l’altro, porterà con sé tutto il bagaglio delle esperienze precedenti. L’immagine di sé che sviluppa un essere umano che ha avuto un attaccamento proveniente da una base sicura è di essere una persona amabile, degna di essere amata, con buona autostima, con fiducia negli altri sia pure non in modo indiscriminato. La sicurezza interiore ed il senso di autostima richiedono la capacità di integrare due bisogni: il bisogno di autorealizzazione (essere sé stessi) e il bisogno di appartenenza (essere amato da; essere in intimità con;). Il modo con cui metterà insieme la soddisfazione di questi due bisogni dipenderà dalla qualità delle relazioni primarie che avrà vissuto. L’essere autonomo nella relazione, il divenire in grado di allontanarsi dalla famiglia sono strettamente connessi al senso di fiducia in sé ed è più facile se si è avuta una madre responsiva, non invasiva né invischiante. Ainsworth (1969) individua, nelle relazioni primarie con il caregiver, quattro situazioni che corrispondono a quattro stili di attaccamento: l’attaccamento sicuro, l’insicuro-evitante, l’insicuro-ambivalente, l’insicuro-disorganizzato. Nell’attaccamento sicuro, la sicurezza dell’accessibilità materna rende il bambino tranquillo nello spingersi ad esplorare le novità. L’atteggiamento è tipicamente esplorativo; il bambino si sente capace ed attivo e l’ambiente viene vissuto come accogliente. Il bambino con attaccamento insicuro-evitante ha sperimentato, invece, più volte, la difficoltà di accedere alla figura di attaccamento e ha progressivamente imparato a farne a meno, concentrandosi sul mondo inanimato piuttosto che sulle persone. Il bambino con questo tipo di attaccamento si comporta come se gli altri non esistessero. Sul piano cognitivo instaura una specie di autarchia che non tiene conto delle invalidazioni fornite dagli altri. Lo stile cognitivo è quello dell’immunizzazione ossia la minimizzazione dell’invalidazione; il bambino deve diventare autosufficiente in quanto l’ambiente gli è inaccessibile. Il bambino con attaccamento insicuro-ambivalente ha sperimentato l’imprevedibilità della figura di attaccamento, ha tentato di mantenere con lei una vicinanza strettissima, rinunciando a qualsiasi movimento esplorativo autonomo. A livello cognitivo, per evitare l’imprevedibilità si muove solo all’interno del conosciuto e pare dirsi: devo farmi accettare dall’ambiente. L’attaccamento disorganizzato-disorientato, infine, si realizza quando la figura di attaccamento è sperimentata come minacciosa. Il caregiver è spaventato/spaventante. Nel caso della madre spaventata/spaventante, il bambino riceve costantemente un messaggio di pericolo e dato che spesso non trova nell’ambiente alcun motivo che lo confermi, la madre stessa diventa fonte di minaccia per lui; lo stile cognitivo diviene quello dell’ostilità. L’altro da sé è da ignorare o sopraffare all’interno di un ambiente vissuto come minaccioso. I bambini con attaccamento sicuro risolvono i problemi evolutivi in modo adattivo. Al contrario, quelli con attaccamento insicuro mostrano difficoltà nella tarda infanzia, come: eccessiva dipendenza, competenza sociale limitata e minore forza dell’Io. Alcuni studi suggeriscono che l’attaccamento insicuro sia un fattore di rischio per lo sviluppo di una psicopatologia nell’infanzia. Pur sottolineando che la psicopatologia possa instaurarsi attraverso percorsi multipli, mostrano l’esistenza di un’associazione tra attaccamento infantile insicuro e vulnerabilità a sintomi psichiatrici in epoche successive della vita specialmente quando le prime esperienze di vita e le rappresentazioni dell’esperienza di attaccamento compiuta influenzano l’autostima, l’autoregolazione delle emozioni e del comportamento e la qualità delle relazioni. Uno stile di attaccamento insicuro tende ad interferire con lo sviluppo infantile nell’ordine in cui costituisce un fattore di vulnerabilità generale che può sfociare in varie costellazioni psicopatologiche, anche se possono concorrere altri fattori quali il temperamento del bambino, la sua capacità di resilienza, il supporto socio-ambientale, le altre e successive relazioni efficaci che egli può instaurare sia familiari che extrafamiliari. L’attaccamento insicuro è inoltre fattore significativo di rischio rispetto all’emergere di difficoltà emotive e di problemi di comportamento nei bambini che sono vittime di maltrattamenti e di abusi e in quelli che hanno genitori che presentano psicopatologie o fanno uso di sostanze. Molti studi hanno rilevato le relazioni che intercorrono tra l’attaccamento evitante e la rabbia repressa per la mancanza di contatto fisico e di tenerezza, per l’invadenza insensibile o il rifiuto dei comportamenti di attaccamento da parte del caregiver. Nel DSM- IV TR i disturbi di personalità,sono stati raggruppati in tre cluster: A, B, C. In particolare, il cluster C Ansioso-Pauroso caratterizza nei soggetti la preoccupazione ed il dubbio su di sé. Sembra che in questi soggetti prevalgano i tratti dell’attaccamento ambivalente o evitante e soprattutto un collegamento con la dimensione relazionale dell’ipercontrollo. Volendo distinguere, da questo punto di vista, le tre categorie del Cluster C si potrebbe parlare di controllo iperprotettivo per i dipendenti, controllo basato sulla vergogna per gli evitanti, controllo basato sull’eccesso di regole e di disciplina per gli ossessivi. Il cronico sentimento di inadeguatezza che caratterizza i pazienti di questo cluster può provenire dalla sproporzione tra lo sviluppo e i compiti di inversione dei ruoli che i genitori potrebbero aver richiesto loro in tenera età. Le madri si comportano spesso come sorelle dei loro figli, chiedono loro di riempire le loro solitudini, di consolare le loro delusioni, di sedare le loro ansie e di consolare le loro tristezze, di dare loro soddisfazione con i loro successi necessari a migliorare la loro personale autostima. I padri appaiono insicuri, insensibili, chiedono ai figli di non dare problemi. La sproporzione del compito rispetto alle forze possedute per attuarlo li rende ansiosi. I dipendenti possono reagire all’ansia sperimentando tutta la loro insicurezza, incapaci di affermare un proprio obiettivo. Secondo Mikulincer e Shaver (2008) la disponibilità delle figure di attaccamento non solo rinforza la capacità di fare affidamento su figure benevole, sia interne che esterne, ma è una base fondamentale per sviluppare capacità di autoregolazione. I due studiosi evidenziano come individui con attaccamento sicuro manifestino rispetto a quelli con attaccamento insicuro maggiore autostima, capacità di problem solving e coping superiori, punteggi più bassi nelle scale che rilevano la presenza di disturbo dipendente di personalità, atteggiamenti costruttivi verso il mondo del lavoro e verso l’esplorazione ambientale e l’autonomia. Nonostante i comportamenti di attaccamento e i segni di dipendenza presentino aspetti simili (per es.: piangere, aggrapparsi e cercare la vicinanza) non sembra corretto considerare la qualità dell’attaccamento senz’altro una misura della dipendenza. A prescindere dalla connotazione giudicante che il termine dipendenza spesso assume occorre ricordare  che quando il bambino è massimamente dipendente dalla madre,  nei primi mesi di vita, di fatto il legame di attaccamento non si è ancora pienamente sviluppato(Bowlby,1969) Pertanto, sembra più opportuno riferire il primo a un comportamento primario teso alla ricerca e al mantenimento della prossimità con una figura preferenziale, percepita solitamente come più forte, saggia, competente, e la seconda ad un atteggiamento derivato dal bisogno di attaccamento, che può non essere diretto verso un soggetto specifico e che si esprime con atteggiamenti generalizzati  miranti ad evocare assistenza, guida e approvazione; in breve, l’attaccamento predilige mentre la dipendenza può dirigersi  anche verso un oggetto non  prediletto. Sul rapporto tra stile di attaccamento e personalità dipendente sono state condotte parecchie ricerche (Ainsworth, 1972; Sroufe, Fox, Pancake, 1983, Weinfield et al.,1999), la cosiddetta “personalità dipendente” viene di solito considerata il risultato di un attaccamento insicuro-ansioso iniziale che tende ad autoperpetuarsi (West et al., 1994). Ricerca e osservazione clinica hanno dimostrato che la dipendenza e l’attiguo senso di inefficacia tendono ad aumentare quando l’attaccamento insicuro si combina a trauma e a neglet (Holmes, 1997). Come osservano anche Liotti e Farina (2011) quando il bambino vive in contesti relazionali traumatici ad esserne condizionato risulta principalmente il suo sviluppo nelle competenze interpersonali causando tipicamente gravi difficoltà a riporre fiducia negli altri, oscillazioni fra ricerca della vicinanza protettiva e paura dell’intimità affettiva, comportamenti inappropriati nel controllo della relazione. Talora le loro relazioni si appiattiscono sotto il continuo sforzo di compiacere l’altro, verso il quale sviluppano una dipendenza patologica. Sebbene da tempo la ricerca abbia riconosciuto la centralità dei traumi focali (abusi, condotte abusive, maltrattamenti, perdite, ecc) nello spiegare lo sviluppo di attaccamenti disorganizzati, solo di recente, si è compreso il loro profondo impatto psicologico. Karlen Lyons-Ruth ha descritto in modo attendibile come la natura variegata e sottilmente traumatica  di un ambiente di sviluppo caratterizzato da conflittualità, trascuratezza, interazioni disturbate, distorsioni sintomatiche della comunicazione(bugie, inganni, tradimenti, fraintendimenti pesanti e continui) possa contribuire a determinare una disorganizzazione nelle relazioni di attaccamento e poi, a partire dall’età scolare, a sviluppare una personalità attorno a soluzioni difensive associate a stati mentali disorganizzati, multipli, incoerenti e conflittuali di impotenza e ostilità (Lyons-Ruth, Jacobvitz, 2008). Finora si pensava che il genitore con una condizione mentale di dissociazione in relazione a personali esperienze traumatiche passate, o a esperienze di perdita non elaborate, potesse manifestare una specifica difficoltà a prestare attenzione flessibile agli stati affettivi dolorosi del figlio, in quanto l’espressione di dolore o di paura può evocare nel genitore stati affettivi suoi dolorosi ed irrisolti. In realtà, esiste tutta un’ampia gamma di comportamenti insensibili che possono creare una dissociazione nel bambino, legati non soltanto a esperienze di lutto o trauma della madre, ma ad ogni occasione in cui la madre fallisce nel proteggere il bambino e nel supportarlo nelle sue richieste di protezione, magari a causa delle carenze affettive da lei stessa patite. Se questi comportamenti sono ripetuti, il bambino li può vivere in modo traumatico. Lyons-Ruth e collaboratori, nel 2007, hanno studiato e descritto gli stati mentali di impotenza-ostilità (hostile-helpless, HH) facendo notare che questi stati pur poggiando su interazioni disorganizzate madre-bambino, presentano caratteristiche diverse; lo stato mentale “ostile” presenta contenuti mentali contraddittori valutando la figura di riferimento ora positiva, ora negativa, mostrando confusioni ed inversioni di ruolo, comportamenti intrusivi-negativi  rispetto a soggetti significativi uniti a comportamenti contraddittori caratterizzati ora da attenzione ora da rifiuto. Al contrario, gli stati mentali impotenti mostrano svalutazione globale della figura di attaccamento che ha abdicato al proprio ruolo di genitore ma coesistenti tuttavia con un’identificazione totale con essa. Quello che queste due strategie hanno in comune è che sono entrambe espressione di un tentativo di proteggersi (da qui il controllo) da un’iperattivazione senza possibilità di autoregolazione. Comportamenti o atteggiamenti patologicamente dipendenti (accudenti) o controdipendenti (ostili), diventano così, paradossalmente, l’espressione del tentativo di fuggire da una relazione intima vissuta come troppo pericolosa e traumatica. Rispetto alle dipendenze patologiche sembra essere la strategia impotente quella che ha maggior punti in comune con esse. Si può notare come l’estrema paura dell’abbandono e il tentativo di conservare una relazione per mezzo del continuo compiacimento dell’altro, possono essere letti come tentativi di difendersi da originari sentimenti di impotenza e di inermità legati alla precoce relazione traumatica con il genitore. Strategie di impotenza ed ostilità, possono caratterizzare, incastrandosi tra loro, relazioni di tipo sado-masochista che, sia pur dolorose, aiutano a capire lo sforzo disperato dei due protagonisti per mantenere disattivato (controllato) il loro sistema motivazionale di attaccamento (Liotti, Farina, cit). Le esperienze emotive precoci creano dipendenza non solo perché sono psicologicamente rilevanti ma anche a motivo dei loro concomitanti neurochimici (Mitchell, 2000). Si è scoperto che i percorsi delle endorfine si stabiliscono nel cervello durante i primi mesi di vita e nel contesto delle relazioni oggettuali precoci. Le esperienze affettivamente intense, sia positive che negative, sono accompagnate da rilascio di endorfina, tanto che questi stati cerebrali chimicamente determinati si associano sia a condizioni di profonda sicurezza sia a traumi (Pally, 1999; Cozolino, 2006). Si parla a questo proposito di fisiopatologia del legame, Hofer (1987, 1996, 2006) sulla neurobiologia della dipendenza ha compiuto diversi studi e ricerche, giungendo a concludere che la regolazione neuro-bio-fisiologica del bambino si esplica all’interno della coppia madre-bambino attraverso dei processi regolatori nascosti che svolgerebbero il loro effetto sul sistema nervoso dell’infante ma la cui qualità sarebbe comunque funzione della coppia. Si tratta, in breve, di un passaggio evolutivo da una regolazione fisiologica con il caregiver a una regolazione ben più complessa in quanto inserita nel mondo interno simbolico, È probabile che dentro una relazione madre-bambino connotata da eccessiva intrusività della madre il bambino abbia avuto scarse possibilità di esplicare le sue funzioni autoregolative in quanto scoraggiato ampiamente a farlo e ha quindi continuato a dipendere adesivamente dall’altro per la sua autoregolazione. La condotta dipendente può essere descritta come la ricerca di un apporto esterno di cui un individuo ha bisogno per il proprio equilibrio e che non può trovare a livello delle proprie risorse interne. In sintesi, il modello di Hofer permette di ipotizzare che gli esseri umani possono diversificarsi tra loro non solo per la qualità delle relazioni reali necessarie alla propria regolazione, ma anche per il tipo di oggetto regolatore su cui si sono appoggiati per compensare le proprie carenze regolatorie. Nella pratica clinica, la maggior parte degli psicoanalisti, pur cercando di armonizzare sul piano pratico indipendenza e relazione, ha teoricamente sopravvalutato l’indipendenza rispetto alla dipendenza. Jessica Benjamin ritiene che questa enfatizzazione sia la conseguenza della visione psicoanalitica dell’individuo come sistema chiuso in cui l’Io investe con il proprio desiderio gli oggetti e gli interiorizza per accrescere la propria indipendenza da loro. Ne consegue che il confronto con un altro, indipendente, come condizione di crescita e cambiamento e il processo possibile e simultaneo di essere trasformato dall’altro vengono grandemente limitati (Benjamin, 1988). L’intersoggettivismo utilizzando consapevolmente i nuovi temi biologici che provengono dalle Neuroscienze e dalle ricerche sull’Infanzia (Infant Research),opera una revisione  del concetto di dipendenza  La teoria intersoggettiva porta in risalto la reciprocità, di contro alla teoria pulsionale e alla teoria delle relazioni d’oggetto che si focalizzano sul soggetto in quanto individuo e sulla relazione con l’altro  in quanto oggetto, richiamando l’importanza che riveste per il soggetto l’essere riconosciuto come tale da un altro soggetto, da un altro essere umano (Mitchell, 2000). All’interno di questo processo di riconoscimento è presente una naturale tensione continua tra la spinta all’autoaffermazione e la dipendenza da un altro individuo che garantisce il riconoscimento di cui l’essere umano abbisogna. È proprio quando ci si trova ad affrontare spinte verso l’indipendenza che il soggetto risente del fallimento delle funzioni genitoriali e finisce per optare per soluzioni relazionali patologiche (Benjamin, op. cit). L’approccio intersoggettivo tratta in modo particolare la dipendenza relazionale, come è stato scritto dalla Benjamin “le esperienze di essere insieme sono fondate su una crescente coscienza di differenza, su un senso di intimità vissuto come qualcosa che avviene tra noi due” (Benjamin, op cit). Una visione sana della dipendenza presume i temi intersoggettivi e si basa sulla capacità di accettare le tensioni insite nel riconoscimento reciproco e nell’irriducibilità della differenza. Quando nella relazione bambino-caregiver questa tensione viene a mancare, il gioco della dipendenza comincia ad assumere i caratteri del dominio e della sottomissione nelle loro svariate espressioni. Infine un accenno agli studi di Guido Crocetti sul tema della dipendenza e del bisogno di dipendere del bambino e sui rapporti che essi possono instaurare con “la coppiamadre” (Crocetti G.,2008). Lo studioso, dopo aver definito la “coppiamadre” come relazione complessa tra un uomo e una donna illusi, cioè coinvolti nel processo generativo, partecipato e goduto nell’intimità che fa la coppia, indica come le delusioni e i traumi della e nella stessa coppiamadre passino direttamente sui figli. Le delusioni nella coppiamadre sono esperienze complesse che si manifestano essenzialmente come deprivazione e svuotamento la cui azione produce conseguenze traumatiche sia sui generanti che sul generato. Il disagio infantile è sempre la conseguenza di un abuso o di un maltrattamento che trovano origine in una delusione-trauma interna o esterna alla coppiamadre, non tenuta nella mente, che si riverbera sulle funzioni genitoriali o sul bisogno di dipendere del bambino. (Crocetti G., 2012).

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