Il 25 novembre prossimo verrà celebrata, se non in tutto il mondo, almeno per tutto il mondo, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

A pochi giorni di distanza vorrei intrattenervi su un tema molto trattato e purtroppo talvolta anche bistrattato, mi riferisco espressamente a quello della violenza di genere che in questa sede potrebbe trovare, voi permettendo e a voi piacendo, uno spazio per la discussione e l’approfondimento, a questo scopo vi invito ad utilizzare gli appositi spazi in calce al presente articolo o, se lo preferite, raggiungendomi per via e-mail come da rubrica inserita espressamente dedicata ai contatti.

Per la stesura della presente riflessione mi sono avvalsa, nell’ordine, dei seguenti autori che, a mio avviso,  se ne sono occupati  degnamente e che pertanto ho assunto quali mie fonti:

Valentina Benoni Degl’Innocenti (2015, Isfar Nuovi Orizzonti)

Rogers Carl (1961;1965; 1972; 1975)

Romito e Melato (2013)

Baldry A. C. (2006)

Walker E. (1989)

Ponzio G (2004; 2009; 2010)


Andiamo ad incominciare.

L’essere umano è inserito da sempre nelle relazioni in forza delle quali si attua un incontro e uno scambio tra sé diversi, tra universi umani differenti che possono arricchirsi ed ampliarsi e modificarsi reciprocamente.

I rapporti d’amore fanno parte di questo incontro e possono diventare una straordinaria occasione di crescita, stimolante e feconda, anche se non scevra da incomprensioni e momenti critici e difficili. Carl Rogers parlando a proposito del suo matrimonio ci rivela che il sogno di un matrimonio paradisiaco è assolutamente irrealistico, ogni rapporto duraturo tra un uomo e una donna richiede grande applicazione; infatti, occorre costruirlo, ricostruirlo e riavviarlo con il mutuo crescere delle persone coinvolte. Amare un’altra persona, così come amarsi, richiede l’attività responsabile di messa in discussione e trasformazione continua e corrisponde ad uno stato mai totalmente compiuto.

Le coppie vivono ciascuna a proprio modo questa relazione. Alcune cercano di dare maggiore concretezza a concetti come rispetto, complicità, sostegno, libertà, altre non seguono questa logica ma possono invece basarsi sul dominio e sulla convinzione che l’altro non ha diritto di essere una persona autonoma con proprie aspirazioni ed idee, sogni e progetti ma considerano l’altro come un oggetto da usare per sé.

Secondo recenti statistiche e ricerche dell’OMS più che le malattie o gli incidenti stradali, è la violenza la prima causa di morte delle donne fra i 16 ed i 44 anni. Colpisce in modo trasversale ed è indipendente da età, etnia, nazionalità, estrazione socio-culturale e i carnefici più frequentemente sono proprio gli uomini che tanto sono loro cari, ossia mariti, fidanzati, compagni, conviventi, ex.

Questa violazione dei diritti umani si genera e si alimenta incessantemente in una società che, nonostante i passi avanti compiuti, resta ancora profondamente patriarcale e pertanto rafforza la disuguaglianza di genere, normalizza l’uso della violenza e da sempre esplicitamente o implicitamente ha riconosciuto all’uomo un ruolo dominante e di potere rispetto alla donna considerata fragile e sottomessa. Si tratta di reati che nonostante il numero sempre più alto di vittime, hanno anche un altrettanto alto tasso di realtà sommerse non denunciate che passano sotto silenzio e che si celano dietro a vergogna, paura e sfiducia nella possibilità di ricevere veramente degli aiuti.

Ma chi sono gli uomini violenti? A differenza di quanto si possa comunemente pensare i maltrattanti sono uomini normali, persone appartenenti a differenti classi sociali e culture, di ogni razza, religione ed età. Molti di loro sono insospettabili e l’alcol e le droghe non sono, il più delle volte, le cause scatenanti la violenza (solo l’8%); anche il disagio mentale o sociale non è sinonimo di comportamento violento.

Posto che ogni individuo è unico ed ha una sua personalità e che non si esaurisce dentro etichette ed attribuzioni, da ricerche compiute si sono ricavate caratteristiche ricorrenti negli uomini violenti. In primis la visione della donna come oggetto da possedere e da tenere sotto controllo, in quanto priva di autonomia e di libertà decisionale e di espressione, una bambola da usare a piacimento. Sono uomini intimamente deboli, che soffrono di una profonda ferita narcisistica e che usano agiti e non agiti violenti per tranquillizzare le loro angosce, attribuendo la responsabilità dei loro insuccessi alla loro compagna. Uomini in cui il senso arcaico di fragilità e di impotenza può indurre volontà di dominio. Uomini che negano ogni limite interno, che desiderano fondersi con la partner e non riconoscono alcuna necessità di una giusta distanza relazionale e psicologica da lei.

Per quanto riguarda i femminicidi essi non sono tanto da attribuirsi a raptus improvvisi o a patologie, ma piuttosto corrispondono a  morti spesso preannunciate da molteplici e continui segnali; questi uomini arrivano all’atto estremo dell’omicidio e dell’omicidio-suicidio in quanto si sono sentiti feriti umiliati e senza più controllo sulla donna, in breve, costoro decidono che con la morte questa sarà loro per sempre; i partner che uccidono, in misura  molto superiore e ancora di più di quelli che si limitano ad usare violenza, non riescono ad elaborare la separazione che considerano come un allontanamento ingiustificato di una loro proprietà esclusiva.

Recentemente sono stati individuati anche alcuni fattori di vulnerabilità nelle vittime di violenza, rintracciabili nelle loro storie individuali, nelle relazioni passate e in altri aspetti che possono aumentare i rischi di maltrattamenti e uxoricidio come l’abuso di sostanze, problemi di salute mentale, svantaggio sociale, deprivazione. In particolare è emerso che una donna che si trova in una relazione dove subisce violenza spesso ha avuto pregresse storie di abuso specie nell’infanzia e ha sperimentato modelli familiari in cui il maltrattamento era accettato.

Che cosa sta a significare tutto questo? Significa che l’esposizione alla violenza nasce quando si è ancora piccole, nelle prime relazioni significative, creando così una fragilità che aumenta la probabilità di scegliere inconsciamente partner violenti.

Vediamo ora le principali caratteristiche della relazione d’amore che conduce alla violenza di genere.

La relazione amorosa inizia come una storia d’amore simile a tante altre: c’è molta vicinanza e si confida l’uno nell’altro fino a finire, successivamente, in dinamiche di progressivo isolamento dal contesto sociale; il messaggio implicito, il patto segreto che circolano in questo rapporto è il seguente: siamo io e te contro il mondo. In questo modo l’unico punto di riferimento e di valore per la donna diviene il compagno e si crea lentamente una bolla a due. Il maltrattamento non comincia subito tuttavia, l’uomo le si rivolge sempre più spesso con atteggiamenti intimidatori e umilianti creando così un terreno fertile per far sentire la donna più vulnerabile e aggredibile, sono questi campanelli d’allarme che fanno presagire una futura violenza fisica. Ha inizio quello che la Walker ha teorizzato come il ciclo della violenza: un modello trifasico che spiega l’avvicendarsi dei maltrattamenti nella coppia.

Secondo questo modello, uno dei più impiegati nel settore, inizialmente si costruisce un clima di tensione dovuto all’impiego di strategie di controllo, denigrazione psicologica e minacce di ricorrere alla violenza. In questa fase la violenza viene giustificata. L’autore della violenza assume gradualmente connotati colpevolizzanti attribuisce alla donna la responsabilità delle sue reazioni violente dovute a delle provocazioni; la donna tende a scusarlo o cerca di contenere la rabbia di lui o ancora si carica di una missione salvifica dell’uomo malato, bisognoso di cure. Si opera così una minimizzazione e una sottostima del fenomeno mentre si sta preparando un assetto relazione nocivo denominabile come vittima-carnefice. Si arriva a ritenere dai due componenti che un certo grado di violenza sia accettabile nella coppia, si è incapaci di porre dei limiti oltre i quali non è possibile la logica del potere-controllo, il desiderio di proteggere l’unità a due, la dipendenza dall’altro, lo scarso valore personale (mancanza di autostima), l’impossibilità di riconoscersi come vittime e di vedere nel compagno non più la persona di cui sono innamorate ma il mostro.

Nella seconda fase si ha l’esplosione della violenza, ossia un aggravarsi progressivo della situazione descritta sopra e tutto questo rappresenta un pericolo per l’incolumità della donna e dei suoi figli: sfocia infatti in aggressioni fisiche oppure in episodi accesi di violenza verbale e/o psicologica. Di fronte alla violenza conclamata la donna subisce un forte shock e cerca strategie di difesa e di sopravvivenza fuggendo da casa, talora denunciando l’aggressore, chiedendo aiuto ai servizi sociali, centri antiviolenza, polizia, spesso con lo scopo di mettergli pressione per porre fine agli abusi.

Nella terza fase detta anche della luna di miele, per paura di perdere il dominio sulla donna, e vedendo gli effetti nocivi del suo comportamento-atteggiamento, il maltrattante si mostra pentito e chiede perdono, giustifica ed al tempo stesso prende la distanza dalla violenza attribuendola ad impulsi incontrollabili, a disagi, a frustrazioni, arriva ad essere conciliante pur di ottenere il perdono ed arrivare ad una riappacificazione. Poiché a questo punto intorno alla donna si è creato il vuoto sociale, il partner rappresenta per lei l’unico appiglio relazionale rimasto e sentendosi ancora debole emotivamente finisce per avvicinarsi al compagno con l’illusione che lui cambierà, cercando di dimenticare percosse e denigrazioni e pensando che si è trattato solo di un periodo difficile. A questo segue una tregua fittizia, costruita dal violento che detta in questo modo i tempi e le condizioni della serenità e della paura.

Proprio per questa alternanza di fasi up/down diventa complicato ed impossibile o quasi alla donna rompere il legame, non le riesce di spezzare il legame in quanto tende a rievocare la positività del partner quella che lui esprime nei tempi di tregua e a minimizzare la gravità delle molestie, anzi, spesso, la donna si accolla un atteggiamento di resistenza e sopportazione ad oltranza per il bene della coppia e della famiglia

Pertanto, l’autore della violenza, conduce, a suo piacimento, questo gioco di doppia faccia benigna-maligna portando, nel tempo, la compagna, divenuta incapace a questo punto della vicenda, di una valutazione oggettiva della realtà, a ricadere nel rapporto soprattutto quando il partner si dimostri pentito, si scusi per la sua irritabilità, prometta un nuovo inizio insieme, minacci il suicidio o colpevolizzi la donna.

Questo ciclo, basato essenzialmente su una logica di potere e controllo fortemente sbilanciata dalla parte dell’aggressore, si ripete spesso per tempi lunghi talvolta persino per anni, portando tuttavia ad una escalation degli episodi di violenza che diventano sempre più frequenti e si accrescono anche nella loro lesività, spingendo la donna verso un progressivo ed inesorabile annientamento del proprio essere. Si tratta di un meccanismo che segue l’andamento di una spirale che si avviluppa e si sviluppa su sé stessa. Comprenderlo ed esserne consapevole rappresenterebbe il primo passo per una possibile uscita. Ma una svolta di questo tipo risulta purtroppo non semplice e richiede molto tempo, prima di emergere. Se avviene, invece, può veramente essere l’inizio di una trasformazione perché può fare capire alla vittima che la violenza non è mai legittima e che non dipende dalla donna e dal suo comportamento.

Possono essere decisivi ed importanti, determinanti a questo riguardo le solidarietà umane, amicali o familiari, l’associazionismo femminile, le iniziative terapeutiche e socio-sanitarie veramente capaci di prendersi il carico e prendersi la cura.

Per finire qualche dato psicologico.

L’esposizione prolungata a processi altamente traumatici arriva a lasciare oltre che danni fisici , talvolta permanenti, anche disagi come stati di ansia, paura, tensione, insonnia, difficoltà, relazionali e sessuali, reazioni post-traumatiche da stress; ancora più sottile però è il lavoro di insediamento silenzioso del maltrattante nella mente della vittima e di distorsione delle sue percezioni; infatti, nelle donne che hanno subito violenza o  maltrattamento si riconoscono, in genere, debolezza psichica, allontanamento dal proprio sé e una graduale distorsione cognitiva tanto da non fidarsi più dei propri pensieri, credenze, valori, ma da vedere come verità incontrovertibile quella che fornisce quotidianamente l’abusante.

Ancora altre conseguenze a carico della donna abusata: perdita dell’autonomia di giudizio, di iniziativa, di autorevolezza, che possono invece costituire potenzialità necessarie per contrastare la violenza del partner.

Nei casi più gravi i meccanismi psicologici di penetrazione provocano  una vera e propria sovrapposizione mentale cosicché la donna “VEDE IL MONDO CON GLI OCCHI DEL PARTNER” pensa e parla con la sua voce come se non esistesse un confine tra  l’io e il tu; c’è una perdita  del piano di realtà, come se la vittima di violenza avesse una visione offuscata che non le permette di riconoscersi e dare credito alle proprie capacità e qualità e di credere, in questo erroneamente,  di poter gestire e risolvere, da sola, la situazione.

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5 commenti

  1. Brava Fausta. Posso farlo leggere a tutte le volontarie di TELEFONO DONNA?

    1. Cara Presidente, naturalmente! Sarò lieta se le volontarie di TELEFONO DONNA lo leggeranno e mi offriranno la loro preziosa e importante riflessione. Crescerò camminando insieme a tutte voi.

  2. La psicologia chiarisce spesso intrecci complicati della mente e del cuore.
    Nel rapporto tra due persone che si uniscono per amore, pare incredibile che si definiscano ruoli così pericolosi. La vittima comunque resta legata al suo carnefice da motivazioni nascoste in un negativo e intimo equilibrio.
    La riflessione che mi viene alla mente è che a volte la donna stessa, se madre malata e sofferente, possa essere artefice stessa della crescita di possibili futuri carnefici.
    A parte queste terribili situazioni, conviene a tutti riflettere sul vero significato di “Amore” che è un “prezioso regalo” che in pochi riusciamo a ricevere o a donare senza chiedere un pagamento in cambio. Ritengo che ognuno di noi debba riflettere, nel rispetto di ogni genere, sul significato di “amare l’altro”, in tutte le sfumature e i significati. L’amore tra genitori e figli, di coppia, nell’amicizia, deve essere comunque basato sul rispetto dell’altro. È indispensabile in famiglia sperimentare cure, affetti, buone abitudini durante la crescita con particolare attenzione al rispetto dell’altro nelle relazioni. La scuola può migliorare quest’ultima capacità con la consapevolezza che si debba stimolare al “raggiungere un altra persona” nel profondo sperimentando cosa voglia dire provare “empatia” imparando a sperimentarla.
    Per avere un mondo migliore l’impegno deve essere di tutti e inizia sempre dai nostri cuccioli.

    1. Molto accurato e ricco il tuo commento, cara Angela, l’ho molto apprezzato per sensibilità umana, preparazione e grande carica educativa che ti contraddistinguono da sempre!

      1. La lettura del tuo articolo è molto stimolante, coinvolge e guida nel comprendere la complessità di questo argomento. Mi hai condotta tu alle riflessioni rese nel mio commento.
        Grazie cara Fausta.

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